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I disagi degli invisibili - Varchi n.7

di Gilda Della Ragione*


Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne e ossa, fibre e umori, e si può persino dire che posseggo un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi.
                                                       RALPH ELLISON, L’uomo invisibile.

 

La storia del fenomeno migratorio verso l’Italia conta ormai parecchi decenni, da lungo tempo dunque conviviamo con gli immigrati, ma per assurdo essi continuano ad essere inclusi in una categoria (quella degli immigrati appunto) che il fluire del tempo non intacca e viene applicata anche a persone che si sono costruite una vita nel nostro paese, ai loro figli nati in Italia; questo atteggiamento evidenzia un concetto di estraneità che mettiamo in atto perfino nei confronti di chi oggi è diventato italiano.

A fronte del magma umano pulsante di storie personali, di necessità, di partenze imposte o scelte accompagnate da speranze, progetti di altre possibilità di vita, la società detta ‘di accoglienza’ tradisce un’incapacità o peggio la non volontà di riflessione e di analisi di un fenomeno che riguarda oggi ‘gli altri’ ma che può travolgere, come un fiume in piena, anche ‘noi’. Nelle loro esternazioni, l’opinione pubblica e i media sembrano essere rimasti ai balbettii degli inizi con reiterazioni di frasi fatte basate su preconcetti e pregiudizi non scardinabili, mentre le istituzioni pubbliche sembrano intrappolate in una fissità, in una rigidità di pensiero che si tramuta il più delle volte in pratiche sociali, politiche, culturali avulse dalle diverse e complicate realtà dei migranti, affrontate e trattate come un fenomeno univoco, del quale sembra interessare solamente la possibile espansione da arginare con politiche di contrasto e di contenimento.
Si tenta qui un cambiamento di prospettiva, volgendo lo sguardo non più sugli immigrati ma sulla società detta di accoglienza che continua a porre il tema delle migrazioni come problema, non valorizzandone gli aspetti positivi (economici) e arricchenti (umani e culturali), e omettendo i profondi disagi che politiche assimilazioniste continuano a imporre ai concittadini di origine straniera.
A tal proposito, risulta lucido e incisivo l’approccio interpretativo di Abdelmalek Sayad, il quale, rompendo con le precedenti analisi scientifiche e ponendosi in netta antitesi nei confronti del discorso pubblico sull’immigrazione, le restituisce il duplice carattere di emigrazione ed immigrazione: il migrante, prima di diventare un immigrato è sempre un emigrante e “se si ignora ciò che sta a monte del fenomeno migratorio sia collettivamente (nella storia sociale dell’emigrazione) sia individualmente (nel particolare itinerario sociale di ogni emigrato) ci è preclusa la possibilità di render conto di quali siano le condizioni originarie dell’emigrazione e soprattutto le trasformazioni che queste condizioni subiscono con l’andar del tempo, vale a dire per tutta la durata del fenomeno migratorio” (Sayad 2002: 240).
L’immigrato inizia ad esistere solo quando varca la frontiera, è in quel momento che ‘nasce’ per il paese di approdo. Se la società decide di ignorare completamente ciò che precede ‘quel momento’, il migrante arriva dal nulla. In effetti se si priva “il fenomeno migratorio di una sua parte, come si è soliti fare, finiamo per rappresentare la popolazione degli immigrati come una categoria astratta e l’immigrato come un puro artefatto” (Sayad 2002: 239), in questo modo la persona diventa invisibile, l’immigrato scomodo e ingombrante.
Ed è in questo voluto obnubilamento che il migrante può avere un ruolo di ‘rivelatore epistemologico’ svelando le contraddizioni e le debolezze, anche quelle più oscure e nascoste, dei comportamenti, delle pratiche e delle politiche della nostra società, sovente fondate sul nostro etnocentrismo più o meno consapevole.
Per noi, l’immigrato è ‘scomodo e ingombrante’ e crea problemi, un atteggiamento di opposizione e rifiuto al ‘nuovo’ che gli provoca ulteriori ostacoli, così, oltre i disagi e le sofferenze legate allo sradicamento, l’immigrato  è costretto a vivere anche quelli che noi riusciamo a creargli, già a partire dall’umiliante collocazione iniziale di oggetto di assistenza anziché soggetto di diritti.

 La questione immigrazione viene percepita e definita dalle istituzioni pubbliche, principalmente, come una problematica socio-economica relativa al lavoro, all’alloggio, alla scuola, alla salute, ecc.
A guardare le reazioni delle istituzioni - e non solo - ad altri tipi di ‘problemi’ quali la fede religiosa, i comportamenti, gli stili di vita, ecc. rimane il dubbio se questi siano procurati dagli immigrati o piuttosto non siano nostre difficoltà a fronte della presenza permanente di individui visti e sentiti come corpi estranei alla nostra società.
Pierre Bourdieu nell’introduzione al testo di Sayad del 2002 scrive: “Come Socrate, secondo Platone, l’immigrato è atopos, senza luogo, fuori luogo, inclassificabile”. In quanto elemento fuori posto, che crea disordine, l’immigrato “si situa in quel luogo ‘bastardo’ di cui parla anche Platone, alla frontiera dell’essere e del non-essere sociali. Fuori luogo, nel senso di incongruo e inopportuno, egli suscita imbarazzo. E la difficoltà che si ha nel pensarlo – anche da parte della scienza che riprende spesso, senza saperlo, i presupposti o le omissioni della visione ufficiale – non fa altro che riprodurre l’imbarazzo creato dalla sua inesistenza ingombrante” (Bourdieu 2002: 6).

Restituire agli immigrati la totalità della loro storia, con tutte le implicazioni ad essa connesse, significa analizzare e interpretare il fenomeno in modo più consapevole, tenendo conto delle diversità delle cause che hanno determinato le partenze e orientato le traiettorie e assumere anche le nostre responsabilità riguardo alle origini di molti dei loro problemi che li hanno spinti a lasciare i loro paesi.
Il colonialismo prima e il neocolonialismo economico poi (oggi parliamo di globalizzazione), con il corollario di imposizioni sovrastatali, vedi aggiustamenti strutturali dettati da Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale, sono i primi responsabili di quell’impoverimento progressivo di porzioni crescenti della popolazione mondiale a fronte di un’invasione di beni di consumo e aspettative impossibili da raggiungere. Donne e uomini della classe d’età più attiva e produttiva emigrano per ottenere quella vita che altri, su questo pianeta, hanno da tempo e ‘senza sforzo’, facendo emergere soprattutto una richiesta di giustizia sociale che dovrebbe esser impossibile rifiutare.
Un esempio per tutti: le ragazze provenienti, in maggioranza, dal sud della Nigeria, che tutti abbiamo visto almeno una volta nelle strade o nei vicoli ad aspettare; presenze fastidiose, oggetto di facile e ipocrita condanna morale da parte di benpensanti che ne desiderano l’allontanamento per la tutela della salute morale dei loro figli e per il decoro della città ma oggetto necessario e ricercato dagli uomini italiani, sul quale realizzare, forse, il fantasma di un immaginario erotico alimentato da memorie coloniali.

Invece di volerle allontanare o di giudicarle ci si potrebbe domandare come e perché sono arrivate fin qui.
La Nigeria, colosso africano agli inizi degli anni Ottanta, avrebbe dovuto fare da motore, insieme al Sudafrica, allo sviluppo dell’intero continente africano, ma qualcosa non ha funzionato. Dopo la caduta del muro di Berlino gli investimenti europei e americani corrono verso un terreno più fertile, l’Europa dell’Est, la Nigeria, come gli altri paesi africani, viene abbandonata e le aspettative dei Nigeriani trovano un muro. Ma non spariscono. In Nigeria salute ed istruzione esistono solo a pagamento e costoso e così molti, ad esempio le ragazze - che hanno aspettative ed aspirazioni simili alle nostre - spesso le sorelle maggiori, partono per trovare i soldi per migliorare il futuro dei fratelli minori e la loro stessa vita, bloccata senza avvenire in patria.

 

Affetti da etnocentricismo

Il rifiuto di affrontare la genesi del nostro etnocentrismo, che si riflette sulla rappresentazione che noi abbiamo dei migrati come ‘umanità in eccesso’ (Rahola, 2003), ha portato a svariate strategie di controllo di un fenomeno che per noi è un disturbo dell’ordine pubblico (sociale, politico, morale, ecc.) e al relegamento dei migrati in una posizione di subalternità nei confronti della società dominante. Assumere questa posizione equivale ad arroccarsi in un’ideologia discriminante, centrata sulla logica di una cultura universale da somministrare a coloro che ancora ne sono privi.
In questi ultimi decenni si sono moltiplicati i lavori sugli immigrati di sociologi e antropologi; questi ultimi che si occupavano di popoli dislocati spazialmente si sono riconvertiti oggi ai temi fecondi dell’immigrazione. L’oggetto di studio ormai è qui e non devono essere più affrontati i disagi della lontananza, della scomodità e dei climi inclementi.
Sui migrati, quasi a dire sulla loro pelle, si discute, si organizzano convegni, tavole rotonde, si auto-selezionano esperti e specialisti, talvolta si fa carriera. Particolarmente gravi sono poi le responsabilità delle scienze umane quando sono chiamate dalle istituzioni a consigliare, indicare linee di azione o decidere, con giudizio inappellabile, la sorte degli ‘altri’. Anche la competenza scientifica, se non persegue con pervicacia il dubbio metodico, può scivolare in una protervia venata da residui positivisti.
Uno dei temi di forza  della politica attuale è quello dell’integrazione, termine abusato e apparentemente innocente; si presta infatti a chiose rassicuranti: si spiega che l’integrazione è intesa come interazione, scambio, un equilibrio tra parti diverse.  
Esaminata alla luce della sua storia antropologica questa parola diventa meno benevola.
A occuparsi specificatamente dell’integrazione degli immigrati sono i lavori teorici della Scuola di Chicago: obiettivo da perseguire per il mantenimento dell’ordine sociale nel suo insieme, secondo una concezione lineare, i cui poli sono l’esclusione o l’assimilazione, l’integrazione non può che diventare sinonimo di quest’ultima (Fortin 2000).
L’utilizzo del termine non lascia dubbi sul vero significato che gli si attribuisce: per integrazione tra culture si intende l’abolizione delle loro differenze culturali, religiose, delle loro abitudini alimentari, una richiesta di docilità assoluta ossia se “ti assimili”, “ti accetto”.
Si dovrebbe pensare ad una società che si ricompone a un livello più complesso in tutte le sue parti, e dunque si integra, e invece l’immigrato è sempre l’oggetto di una integrazione in un ambito pre-esistente, di cui non si immagina una modificazione, un processo, quello sì, di inclusione.
Più che mai attiva nella nostra realtà nazionale, proprio nell’ambito delle sofferenze sociali dell’immigrazione, l’antropologia dovrebbe rivendicare il diritto (e dovere) di essere socialmente responsabile, spostandosi più apertamente sul terreno dell’impegno politico, sempre vigile sulle conseguenze sociali e politiche delle sue interpretazioni onde combattere quelle sottrazioni della dignità della persona perpetrate anche in nome dell’accademia scientifica.

 

La sofferenza indicibile

La logica dei rapporti di forza si ripropone all’immigrato anche nelle situazioni di sofferenza psichica dove il sapere medico-psichiatrico occidentale si può imporre in modo più insidioso su una vulnerabilità associata all’estraneità culturale.   
La persona diventa fragile oggettivamente sotto il peso di incomprensibili dinamiche socio-culturali di una società che non l’accoglie realmente e la colloca in quella sospensione di identità, né qui né altrove, una dicotomia conflittuale che può devastare l’essenza stessa della persona trascinandola in una sofferenza indicibile. Questa sofferenza è spesso incompresa e classificata frettolosamente da alcuni operatori sociali come ‘follia’ con immediato ricorso ai servizi psichiatrici. L’immigrato diventa ricettacolo di innumerevoli e bizzarre entità: jinn, ogbanje, zar, mingis, rab, juju… Nomi che evocano in noi mondi primitivi di magia, di stregoneria, e diventano prova della frattura incolmabile tra la razionalità (la nostra) e l’insensatezza-follia (la loro).
Il disagio psichico diventa un ulteriore pericolo, insieme a quello di contagio di potenziali e talvolta fantasiose malattie infettive portate generalmente dall’Africa.
Nelle differenti versioni del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) sono riunite in un’ appendice apposita le sindromi “culturalmente caratterizzate” e si forniscono temi per una formulazione culturale dei casi appositamente elaborati per immigrati e minoranze etniche.
Anche se si accetta l’obiettivo di una classificazione nosografica dettagliata, nella pratica si insidia il pericolo della reificazione della cultura; un modello culturale fisso, irriducibile è elemento pericoloso e fuorviante: inscrive il paziente in una nicchia precostituita dalla scienza del terapeuta, e allora il termine cultura, privato della sua connaturata fluidità, equivale alla naturalizzazione della malattia con conseguenze facilmente intuibili.
In un contesto così delicato diventa fondamentale il tipo di sguardo che il terapeuta volge sulla persona nell’esperienza della sofferenza.
Prevarrà la dimensione dell’ascolto, della comprensione (nel senso etimologico del termine) dell’esperienza del dolore o sarà imposta la protervia implicita del “potere psichiatrico” che assoggetta corpo e mente? (Foucault 2003).
La ricerca del senso della sofferenza esistenziale dovrebbe attuarsi nell’ambito di una relazione empatica, che scandagli i contenuti del dolore in relazione anche al contesto socio-politico. Uno spazio in cui convergono sì competenza, professionalità, ma anche continua volontà di ricerca e di ‘invenzione’: una tensione costante tra scienze della vita e dell’esistenza - psichiatria, psicologia, antropologia - al fine di ricostruire con la persona una rete di significati, che le permetta di ritrovare la sua interiorità e una sintonia con il mondo che la circonda.
La nostalgia, la solitudine, il vuoto affettivo, l’esclusione sociale sono solo alcune delle esperienze che creano tensione, sofferenza fino ad arrivare a situazioni di grave crisi, un processo pisco-sociale che può diventare alienante.
L’angoscia di “essere fuori dal mondo”, di “non esserci” getta in una crisi radicale che fa perdere il contatto con se stesso e con gli altri significati, è la “crisi della presenza”, nozione con la quale De Martino (1948, 1977) spiega il processo di depersonalizzazione e la perdita della propria collocazione in un dato momento storico. L’autore si riferisce al contesto storico e geografico del Meridione, a una situazione di rapporti di forza in cui le ‘culture popolari’ erano ancora ritenute subalterne alla cultura nazionale dominante (Gramsci 1975). Pur con le dovute differenze, vi sono dei richiami alle nostre vicende.

 

Etnopsichiatria

Per la cura del disagio psichico dell’immigrato viene chiamata in causa l’etnopsichiatria, disciplina occidentale che ha origine, come l’antropologia d’altronde, in contesto coloniale e ha una lunga storia di teorie e pratiche contaminate nei fondamenti epistemologici da condiscendenze politiche.
Psichiatri e psicologi sembrano trovare nell’ideologia di dominazione un humus  particolarmente fertile all’elaborazione di costruzioni teoriche e rappresentazioni del colonizzato - in sintonia o apertamente a vantaggio delle imprese colonizzatrici - che con il crisma di una legittimazione ‘scientifica’ relegano l’‘indigeno’ in un’alterità psichica irriducibile, diretta conseguenza della sua presupposta diversità ontologica.  
Quelle rappresentazioni, costruite su determinate categorie eziologiche e diagnostiche, che giudichiamo, oggi, per quello che realmente sono, deliranti e superate, sono state riproposte sino a tempi recenti.
Per citarne una, si ricorda la nozione di “complesso di dipendenza” di Octave Mannoni (1950) riferito ai Malgasci. La risposta migliore è la feroce e sarcastica critica di un colonizzato, Aimé Césaire, diretta allo psicanalista francese: “[Mannoni] sarà in grado di dimostrarvi, in maniera lampante, che la colonizzazione si fonda sulla psicologia; che vi sono nel mondo gruppi di uomini affetti, non si sa come, da un complesso che bisogna chiamare complesso di dipendenza; che questi gruppi sono psicologicamente fatti per essere dipendenti; che hanno bisogno della dipendenza, che essi la domandano, la reclamano; ed è il  caso della maggioranza dei popoli colonizzati, in particolare dei Malgasci” (Césaire 2004: 46-7; traduzione mia).
Nel panorama di ideologie e pratiche razziste di disumanizzazione del colonizzato, perpetrate con l’alterigia dell’appartenenza alla “civiltà”, si distacca la lezione magistrale di Frantz Fanon (1952; 2001), fautore illuminato di una pratica socio-psichiatrica, scevra dalla rigidità e violenza della disciplina importata dai colonialisti francesi, perseguendo una psichiatria non solo anticolonialista ma anche militante, politica. Forse questo è avvenuto perché anche Fanon apparteneva alla maggioranza dei “dannati della terra”?
Residui e derive di questo oscuro passato giungono purtroppo fino ai giorni nostri quando surrettiziamente al termine colonizzato si sovrappone il termine immigrato. “Solo un rigoroso approccio storico e politico potrà mettere al riparo l’etnopsichiatria dal reiterare i vizi di un atteggiamento propriamente coloniale, il quale può continuare a riprodursi sotto forme inattese” (Beneduce 2011: 317).
Un esempio è la nozione di “pigrizia frontale” proposta da Porot (1932) - fondatore della scuola psichiatrica di Algeri e difensore del paradigma “primitivista”- la quale priva ‘l’indigeno nord-africano di morale e di capacità di astrazione’ (1918). René Collignon (1997: 84, nota 10) ricorda come la psichiatria, ancora negli anni ‘80, facesse largo uso di questa nozione. Oltre a questo, altri concetti analoghi (impulsi criminali, propensione alla menzogna e all’insolenza, ecc.) saranno esportati e applicati senza remore agli algerini in Francia.

 

Etnopsichiatria critica

Oggi l’etnopsichiatria italiana, o meglio alcuni etnopsichiatri più attenti e sensibili,  in contrasto con il riduzionismo medico e psichiatrico, si pongono in una prospettiva critica delle categorie psichiatriche finora adottate.
Nuovi apporti teorici, contributi provenienti da discipline contigue come l’etnologia e l’antropologia tendono a rendere l’etnopsichiatria più consapevole, nell’approccio alle sofferenze dei migranti, delle incomprensioni e delle violenze operate in periodo coloniale che il tempo e lo sviluppo della disciplina non hanno completamente cancellato. La dimensione della ricerca deve andare oltre l’appartenenza culturale dell’immigrato e considerare l’ideologia veicolata da molte categorie diagnostiche e le posizioni e i rapporti di forza esistenti tra gli interlocutori.
Come afferma Roberto Beneduce “l’etnopsichiatria delle migrazioni è chiamata a esplorare l’intero orizzonte dei processi storici, economici e sociali fra i quali emerge la sofferenza o si sviluppano i conflitti psicologici degli immigrati, dal momento che un approccio incapace di dare ascolto a quelle storie negate e a quelle memorie umiliate sarebbe di fatto inefficace sotto il profilo clinico” (2011: 263).

Bibliografia
Beneduce, R. (2011), Etnopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura, Carocci, Roma (prima ed. 2007).
Bourdieu, P. (2002) Introduzione in Sayad A., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano.  
Césaire, A. (1955), Le discours sur le colonialisme, Présence Africaine, Paris.
Collignon, R. (1997), Aliénation mentale et altérité du sujet colonial: de quelques difficultés de l’émergence d’une relation thérapeutique basée sur le dialogue en Afrique, in R. Beneduce (a cura  di), Saperi, linguaggi e tecniche nei sistemi di cura tradizionali, L’Harmattan Italia, Torino, pp. 71-88.
De Martino, E. (1948), Il mondo magico. Prolegomeni ad una storia del magismo, Einaudi, Torino.
De Martino, E. (1977), La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
Fanon, F. (1952), Peau noire, masques blancs, Éditions du Seuil, Paris.
Fanon, F. (2001), L’an V de la révolution algérienne, La Découverte, Paris.
Fortin, S. (2000), Pour en finir avec l’intégration, Université de Montréal, Montréal.
Foucault, M. (2003), Le pouvoir psychiatrique (Cours au Collège de France, 1973-1974), Gallimard et Seuil, Paris.
Gramsci, A. (1975), Quaderni del carcere, Einaudi, Torino.
Mannoni, O. (1950), Psychologie de la colonisation, Paris, Seuil.
Porot, A. (1918), Notes de psychiatrie musulmane, in « Annales médico-psychologiques », 1918, 74, 9, pp. 377-84.
Porot, A. et J. Sutter (1939), Le primitivisme des indigènes nord-africains ; ses incidences en pathologie mentale, in « Sud médical et chirurgical » 15 avril, s.p.
Rahola, F. (2003), Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell’umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona.
Sayad, A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina Editore, Milano (ed. or. La double absence, Éditions du Seuil, Paris, 1999).

 

Varchi n.7

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