Da una mezz'ora altra - Varchi n.5
di Rita Sciorato
“Ogni volta che scrivo una relazione, dopo aver raccolto tutti i dati teorici, la documentazione clinica che voglio includere e la letteratura inerente, mi ritrovo per giorni, o addirittura per settimane, in uno stato di confusione, di scoraggiamento e ansia non indifferenti... Mi sono così reso conto che l’angoscia, lo scoraggiamento e la confusione che provo ogni volta che preparo una relazione erano connessi all’argomento, del tutto simili, cioè, al panico che invade lo schizofrenico quando sente la mancanza di principi organizzativi sicuri con cui dare un senso e utilizzare le percezioni caotiche che lo assediano”. (Harold Searles, Il Controtransfert)
E' in questa intuizione di Searles che ho trovato il sostegno psicologico di cui avevo bisogno per decidere di iniziare a scrivere. Quando mi ero resa disponibile a dare un contributo per questo numero della nostra rivista non immaginavo che mi sarei trovata nella difficoltà di pensare a come impostare questo lavoro.
Non riuscivo a vedere in che modo i tanti brandelli di ricordi, riflessioni, appunti sparsi nei quaderni dei miei tanti anni di lavoro con pazienti psicotici potessero essere contenuti e prendere senso in una trama. Così quasi automaticamente, come tante volte in passato di fronte all’angoscia di un caso difficile, ho riaperto un libro di Searles per prendere tempo, per allontanarmi un po’ da me stessa, rimanendo tuttavia agganciata all’argomento.
Alla fine ho trovato il modo a me più consono di collegare riflessioni e ricordi.
Ho scritto dei miei pazienti con me e di me con loro e di noi con i colleghi: non proprio una rassegna di casi clinici, ma cenni di testimonianza delle tappe del mio lavoro in questi ultimi quasi quarant’anni.
Per crisi e per lisi, usando un’espressione tipica di Pierfrancesco Galli, nell’oscillazione tra vissuti di onnipotenza e di impotenza si è strutturato il mio lungo percorso lavorativo con la psicosi nel sevizio pubblico. Nella bibliografia ho messo alcuni libri a cui sono rimasta affezionata per aver cercato in loro conoscenza e conforto. Ho riportato momenti e immagini di persone che hanno accompagnato il mio desiderio di capire e di fare qualcosa di utile in questo campo così incerto, così inquietante, ma anche così tanto affascinante.
I nomi che ho attribuito ai pazienti segneranno i passaggi delle pagine che seguono, così come loro e tanti altri che non ho potuto qui ricordare per ragioni di spazio, hanno segnato i passaggi della mia esperienza dall’inizio della carriera al pensionamento.
Gabriele
Gabriele aveva 18 anni, era vissuto nel manicomio di Cogoleto, nel cosiddetto repartino, dall’età di sei anni. Era pelle e ossa, abbastanza alto ma tutto storto, il suo corpo era tutto contorto, la testa ripiegata da un lato, i lobi delle orecchie deformati per quanto negli anni li aveva torturati allo scopo di non sentire le “voci”.
Camminava sbilenco e sbilenco stazionava a ridosso dei muri, correva a zig zag urlando senza meta negli spazi del centro.
Non ho mai saputo cosa gli dicessero le voci, lui rispondeva a loro urlando e agitandosi, apostrofandole con un: “commmmunisti!… cammmmionisti!...”, e in quell’urlo le emme uscivano con un atroce suono miste a saliva.
Io ero uno degli educatori del Centro Diurno Belvedere, centro che era nato con un progetto ambizioso: realizzare l’integrazione in famiglia e nella società di ragazzi giovani, come Gabriele, dimessi del tutto o in parte dai due ospedali psichiatrici.
Anche noi operatori eravamo molto giovani; assunti in quanto in possesso di una formazione “umanistica”, non medica, per lo più eravamo caratterizzati dal fatto di avere qualche cognizione psicologica, sociologica o filosofica, ma soprattutto per il fatto di essere animati da una forte ideologia.
Il mandato politico era chiaro ad ogni livello, ma il mandato terapeutico o riabilitativo non aveva pressoché indicazioni. Così improvvisavamo ogni intervento, discutevamo molto, a volte leggevamo insieme, a volte litigavamo e infine avevamo anche iniziato a partecipare in modo sparso alle iniziative formative, che in quel periodo nascevano in città e fuori.
Non sapevamo quasi niente della malattia mentale e la coesione del gruppo era garantita dal nostro essere contro il manicomio, contro la segregazione e l’emarginazione; erano i forti ideali di giustizia, allora condivisi dalla gran parte della nostra generazione, che ci sostenevano in un’impresa che ci ammantava peraltro di una certa importanza, consci della diretta partecipazione alla storia nella nostra città.
Era bello sentirsi impegnati in prima linea nonostante ciò comportasse il dover fare i conti con una ignoranza abissale e con l’inquietudine che da questa derivava.
Accompagnavamo i ragazzi nei luoghi della città perché potessero finalmente vedere il mondo, ma è indubbio che volevamo anche mostrare al mondo la loro esistenza. Era questo un modo per rompere degli steccati, per svelare le vergogne nascoste della società, e senz’altro era innanzitutto un’azione politica realizzata spontaneamente nella quotidianità e nel territorio.
Avevamo fatto nostre le parole di Basaglia che mi pare giusto ricordare:
“La depsichiatrizzazione è un po’ il nostro leit-motiv. È il tentativo di mettere fra parentesi ogni schema, per agire in un terreno non ancora codificato e definito. Per incominciare non si può che negare tutto quello che è attorno a noi: la malattia, il nostro mandato sociale, il ruolo.” (F. Basaglia, L’Istituzione negata).
Abbiamo affrontato disagi di ogni tipo, conflitti, frustrazioni, ma abbiamo anche ricevuto solidarietà, aiuti e a volte complimenti. Una volta, al mercato di piazza Palermo, una donna colpita dall’eccentricità del nostro gruppo ci aveva fermato per sapere, per capire e infine ci aveva fatto mille complimenti.
Nell’estate del ’77 nella colonia di Rovegno, la sera intorno al fuoco, pazienti della sesta divisione di Quarto, ragazzi del Belvedere, operatori della psichiatria, scout e pionieri, amici e parenti sembravano poter essere rappresentativi di un nuovo mondo, dove c’era un posto per tutti con dignità. Ognuno di noi era senz’altro esposto a grandi frustrazioni, ma tutti insieme riuscivamo a trovare in queste cose una sufficiente alimentazione narcisistica.
Così ci muovevamo sempre alla ricerca di nuove esperienze sociali, anzi si diceva socializzanti.
Un giorno al teatro Margherita c’era la Fracci: un balletto classico!
Far entrare i ragazzi in quel mondo “borghese” rappresentava un apice di fierezza e forse anche di provocazione, ma quando all’urlo di “commmmunisti!… cammmmionisti!” si sono accese le luci, il balletto si è fermato e con mille scuse Gabriele veniva allontanato dalla sala… beh! insomma… qualcosa è cambiato.
Sono stati episodi così ad aprire una fase nuova, la forza delle idee non bastava più, la realizzazione dei nostri sogni richiedeva la ricerca di strumenti.
Con Gabriele ho imparato un sacco di cose di me e dell’istituzione, poco di lui e a dir la verità molto poco della malattia mentale. C’era un infermiere che aveva lavorato tanti anni all’ospedale psichiatrico di Quarto, mi raccontava tante cose ma dai suoi racconti mi rendevo conto che non capivo quel che avrei voluto capire e che lui non sapeva spiegarmi più di tanto.
Anche orientarsi nelle letture non era così facile e, ovviamente, circolava una grande diffidenza nei confronti della psicoanalisi.
Nelle riunioni a Quarto e alla CGIL c’era sempre qualcuno pronto a mettere in guardia nei confronti delle “tecniche” .
In solitudine consultavo il manuale di Ey per vedere se potevo capire qualcosa di questo o quel paziente, ma non bastava; in libreria sceglievo Laing, Cooper, ma anche gli Scritti sulla schizofrenia di Searles, libro che mi è rimasto accanto in tutti gli anni a venire.
Restavo comunque lontana dalla psicoanalisi, soprattutto perché mal sopportavo le interpretazioni gratuite che qualche collega pratico di psicoanalisi elargiva a destra e a manca.
Non mi era mai chiara la linea di demarcazione tra la semplice esibizione di un sapere o il subdolo esercizio di un potere.
I fatti quotidiani non mi aiutavano quindi a trovare il modo di conciliare le mie scelte ideologiche con la psicoanalisi, ma con soddisfazione constatavo che il problema esisteva anche per professionisti importanti, che su queste questioni si erano incontrati in un convegno, trascrivo dall’introduzione agli Atti:
“(…) Il merito indubbio della sinistra psichiatrica di aver denunciato con grande fermezza e capacità intellettuale l’origine sociale della malattia ha forse pesato in modo eccessivo sulla difficoltà tremenda che veniva dopo questa acquisizione E’ la società che fa ammalare, ma di malattia e di sofferenza si tratta: problema che dobbiamo affrontare e di cui dobbiamo farci carico senza cadere nel facile paralogismo di chi, riconoscendo correttamente l’origine sociale del male, si appresta a negare (onnipotentemente) il male piuttosto che l’origine.” (E. Morpurgo, A. Voltolin, Psicoanalisi e classi sociali).
Al Centro Belvedere, come del resto a Quarto e a Cogoleto l’esistenza quotidiana era segnata da uno spazio e da un tempo indefiniti; raramente il ritmo giornaliero era attraversato da qualche avvenimento significativo, a meno che non si trattasse di qualcosa all’insegna dell’emergenza, come quando appresa la notizia del rapimento di Moro, abbiamo chiuso il Centro e ci siamo riversati in piazza sgomenti e spaventati con migliaia di altri lavoratori.
La vita del Centro si perdeva in un “sempre uguale”: non c’era niente che assumesse il senso di una evoluzione, niente da poter memorizzare in una trama, solo relazioni e solo relazioni senza una possibile trama.
Tutto veniva avvolto da una sorta di spersonalizzazione.
Discutevo spesso di queste questioni con un’amica sociologa che mi aveva poi indirizzato ad un corso di formazione di “analisi istituzionale” allo Studio APS di Milano e questa è stata la mia prima esperienza formativa.
Sono ancora grata alla dott.ssa Ambrosiano per avermi aiutato a difendermi ed avermi stimolato verso la costruzione di un’identità professionale. E’ stata lei ad offrirmi il dispositivo di cui avevo bisogno: la mezz’ora, il setting! Ma solo anni dopo ho capito che si trattava del dispositivo che consente costanza e continuità, che crea le condizioni per poter pensare l’altro memorizzandone il suo divenire, per poter contenere il processo relazionale in una trama con un senso.
Avevo comunicato a Gabriele che da quel momento avremmo avuto a disposizione mezz’ora al giorno dalle… alle…, nella saletta, con fogli e pennarelli.
Così ho comprato il quaderno della mezz’ora e lì annotavo ogni giorno quel che succedeva.
è un quaderno che parla accuratamente dei suoi sguardi, delle sue smorfie e gesti e di qualche sua rara parola, dei tanti suoi disegni fatti di mezze facce sparse a caso sul foglio, di croci e di tombe e poi anche di mie fantasie e domande a cui cercavo risposte nei libri.
Ci sono voluti più di due mesi perché Gabriele scegliesse di familiarizzare con la sedia e poi con carta e matita! Del resto non stava mai seduto, neanche a tavola; ero io che gli portavo il pranzo in giardino, appoggiando il piatto su un muretto, che solo dopo un po’ di tempo, lontano dagli sguardi di tutti, consumava voracemente e rigorosamente in piedi.
Chissà se la mezz’ora ne ha avuto davvero merito, non saprei, ma mi piace ancora adesso credere che fu grazie a questo che Gabriele ad un certo punto aveva trovato una sua personale mezz’ora: aveva preso ad uscire dal Centro ogni giorno per andarsi a sedere sui gradini esterni del laboratorio vicino di un artigiano e da lì lo guardava impagliare le sedie.
Qualche tempo dopo, leggendo un articolo di Paul Racamier che parlava di guarigione sociale avevo pensato che questa piccola conquista di autonomia potesse essere collocata in questa linea, magari proprio al suo inizio, ma era già qualcosa, anzi per me molto: rappresentava la speranza di potercela fare in questo mestiere.
è stato un periodo intensissimo.
Enrico
Con l’applicazione della Legge 180 e la conseguente chiusura dei manicomi, anche il Centro Belvedere chiudeva e io passavo ad un nuovo gruppo di lavoro, in uno dei vari servizi di salute mentale che venivano istituiti nei diversi quartieri della città.
Nei primi anni nel Servizio di Struppa, tutti i lunedì e giovedì pomeriggio il servizio era chiuso al pubblico per due ore; era il nostro spazio di riflessione.
Al lunedì ci riunivamo per leggere articoli, discutere, decidere le priorità con uno sguardo ai pazienti e uno sguardo agli obiettivi istituzionali, come l’organizzazione dell’accoglienza dei pazienti o le dimissioni da Quarto dei pazienti residenti nella nostra zona: cercavamo la linea da seguire; al giovedì ci riunivamo per discutere i casi più difficili.
Il servizio si era strutturato operativamente con tre sotto-équipe corrispondenti a tre quartieri della zona, ma eravamo dell’idea che i casi più difficili dovessero essere conosciuti da tutti gli operatori del servizio sia allo scopo di essere pronti ad ogni evenienza sia perché condividerne il progetto di cura e riabilitazione responsabilmente nell’équipe “grande” metteva le basi per un metodo di lavoro comune.
Gli scritti di Racamier erano un punto di riferimento per tutti; ognuno di noi, indipendentemente dal profilo professionale, condivideva quel pensiero così stimolante per il nostro tentativo di creare una cultura di servizio: un linguaggio e un agire condiviso tra le varie professionalità. Eravamo tutti d’accordo sulla necessità di assumere funzioni di Io ausiliario quando la situazione lo richiedeva, ad esempio arredando una casa con il paziente, o chiedendo sostegno e collaborazione ai vicini di casa e ai famigliari, e persino mangiando in mensa con gli operai di una fabbrica in cui avevamo reintegrato un paziente.
Il nostro compito era di preparare le condizioni ambientali atte ad accogliere quei degenti della terza divisione di Quarto che potevano essere dimessi.
La Legge 180 aveva chiuso la possibilità di ricovero in O.P. ma perché si trattasse di vera chiusura bisognava trovare il modo di svuotare il manicomio.
Alcune funzioni del Servizio erano svolte indifferentemente da ogni operatore, cercavamo di elaborare un nostro stile e per tali attività ci sentivamo responsabili in egual modo, indipendentemente dalla professionalità e dal contratto di lavoro.
Fondamentale per ognuno di noi era l’analisi della domanda: nel turno d’accoglienza dovevamo accuratamente annotare chi aveva inviato il paziente, quali erano le aspettative nei confronti del servizio, e vigilare perché non si creassero condizioni psichiatrizzanti.
E’ in questo contesto che va collocato il significato di operatore unico, termine molto in voga in quel periodo, in tutta Italia, e che a mio parere ha connotato la compattezza delle équipe ed anche sostenuto la convinzione che con la psicosi solo il lavoro d’équipe potesse avere una funzione terapeutica.
I nuovi servizi territoriali, attuali CSM, inizialmente si andavano strutturando soprattutto sul compito di cercare nel territorio, nella zona di residenza, l’ alternativa al manicomio e quindi eravamo impegnati prevalentemente con pazienti provenienti dall’O.P., ma ai quali ben presto si andavano ad aggiungere i nuovi “non aventi diritto” per Legge, quelli, quindi, mai stati in manicomio, pazienti che erano altrettanto impegnativi e forse anche di più.
Enrico era uno dei nuovi casi e da subito era stato definito un caso difficile.
In una delle riunioni del giovedì avevamo concordato che fosse necessario prima di tutto evitargli nuovi ricoveri e quindi stimolarlo gradatamente ad uscire dalla condizione di ritiro e passività in cui si trovava.
Era il primo paziente che vedevo da sola in una stanza ambulatoriale per quarantacinque minuti alla settimana.
Giovanissimo, passato da un reparto di rianimazione alla Clinica Psichiatrica, era rimasto ricoverato sei mesi a seguito dell’impiccagione dalla quale era stato salvato in extremis da un familiare. Assumeva una terapia farmacologica importante, di lui si occupavano un medico, due infermieri ed io, ma tutto il servizio aveva maturato nel tempo un rapporto con lui.
Il primo periodo della nostra relazione è stato segnato da una totale assenza di dialogo, i lunghi silenzi erano attraversati da un sonoro imbarazzo reciproco.
Lui ogni tanto arrossiva, si infuocava anzi, muoveva freneticamente le gambe, io un po’ lo guardavo e un po’ no; pensavo, fantasticavo, mi rifugiavo nella memoria cercando tra le pagine di Racamier qualcosa a cui attaccarmi per dare un senso a quel mio essere lì con lui. Mi sentivo quasi fossi un partigiano, facevo la mia resistenza, forte della parola d’ordine comune: evitare quanto più possibile i ricoveri.
Qualche volte gli sorridevo, dicevo qualcosa di banale o gli rivolgevo domande stupide, tipo se c’era traffico o se fuori faceva freddo, lui mi rispondeva a cenni e per me era già tanto constatare che non si infastidisse. Avevo paura, avevo l’impressione di un vulcano spento che improvvisamente avrebbe potuto riaccendersi.
Mi ero abituata a queste nuove mezz’ore, a questo diverso andamento degli incontri e mi tenevo aggrappata all’idea che forse erano davvero utili ad evitare un nuovo ricovero.
Negli appunti trovo scritto: “(…) sembriamo due sconosciuti come fossimo su un binario ad aspettare lo stesso treno. X (il medico) mi ha detto che il tremore alla gambe non è imbarazzo ma un effetto collaterale dei farmaci, meno male”.
Forse è stata una sigaretta a sbloccare la situazione: avevo voglia di fumare, e forse anche di far passare più in fretta quei minuti colmi di ansia, così gliene ho offerta una che non ha accettato, ma trovo scritto che mi ha sorriso dicendomi che il fumo mi faceva male.
Nel frattempo l’équipe mi sosteneva e mi stimolava ad aiutarlo a prendere consapevolezza di malattia, così avevo iniziato ad osare domande in tal senso, gli chiedevo cosa ne pensasse del fatto di essere lì con me e aveva risposto confidandomi che il suo problema era la perdita della memoria, cosa che la dott.ssa Corsi Piacentini in supervisione aveva poi definito come impoverimento dell’Io.
Mi piaceva questa espressione così ho cercato subito di documentarmi, di capire cosa era diventato povero in lui.
In équipe avevamo ragionato insieme su questo, e dalla discussione si era delineata una strada: aiutarlo a ricostruire la sua storia prima del ricovero.
Mi ero sentita in sintonia con questo compito che rappresentava un anello di congiunzione nel metodo di lavoro, con i pazienti del manicomio era infatti fondamentale tale ricostruzione contro l’oblio dell’istituzione totalizzante.
Con Enrico era un po’ diverso ma comunque era lui che mi aveva segnalato il bisogno di ricucire una trama che si era spezzata con la malattia e il ricovero.
Le supervisioni con la Corsi Piacentini in équipe, a cui poi avevo aggiunto supervisioni individuali, mi aiutavano a reggere il peso di questi incontri e mi mettevano in contatto con gli scritti di Benedetti sulla psicosi.
La storia di Enrico era un buco, un vuoto, una trama che si era spezzata appunto come leggevo in Benedetti.
Ad un certo punto ha iniziato a parlare ma non rispondeva a tono alle mie domande; mi riempiva di frasi spezzate, frasi enigmatiche, metafore incomprensibili di cui ingenuamente mi sforzavo di ottenere una qualche spiegazione razionale.
Enrico era in uno stato mentale di assoluta confusione e anch’io, dopo ogni incontro, disorientata e confusa andavo in cerca di rifugio nelle supervisioni e nei libri.
Trovavo disperatamente in ogni colloquio una conferma del mondo schizofrenico descritto da Benedetti.
Toccare con mano che poteva esistere un mondo interno così caotico indipendentemente dalle colpe del manicomio e della società, vedere un modo di essere così poco in sintonia con il mondo esterno, eppure vivo ed esistente è stata una scoperta sconvolgente, ma allo stesso tempo molto coinvolgente.
Maurizio
Maurizio è stato il caso più emblematico di questo periodo, anche con lui avevo tentato di usare il disegno come mezzo di comunicazione, un mediatore nella relazione, come avevo appreso dalla lettura di Racamier, che mi dava un po’ di sicurezza. Il suo reintegro in società rappresentava davvero una grande scommessa in cui tutta l’équipe si sentiva chiamata a dare un apporto.
Avevamo tentato di ricostruire la storia della sua giovane vita, della quale mi è rimasto impresso solo che la madre era morta accidentalmente in circostanze che ci erano apparse ambigue.
Di lui avevamo piuttosto paura, era molto spesso minaccioso, faceva discorsi incomprensibili, siamo spesso ricorsi al ricovero obbligatorio in SPDC, a volte anche in modo eclatante e non senza una buona dose di nostra spregiudicatezza.
Ancora oggi quando incontro il suo medico ci capita di dirci: “ti ricordi quella volta che...”.
Maurizio andava sempre sul litorale perché lì si incontrava con le sirene che uscivano dal mare per lui, con loro si intratteneva e faceva lunghi discorsi, ma non amava parlarmi di questo, si era infastidito quando avevo osato mostrargli la mia curiosità; mi rendevo conto che era visibilmente geloso del suo mondo delirante e non gli ho fatto più domande in tal senso.
Raramente mi concedeva di essere presente alla mezz’ora pattuita, faceva qualche disegno e poi borbottando scappava.
A lui era consentito di venire in servizio quando voleva, spesso si intratteneva in sala d’attesa o girava torvo e curvo nel corridoio.
In una di queste volte tre infermieri hanno risolto alla meglio una situazione che si era annunciata come drammatica. Mentre camminavo davanti a lui nel lungo corridoio, mi arriva un calcetto nel sedere a cui automaticamente e istantaneamente rispondo con una sonora sberla in viso; fortuna che all’istante gli infermieri si sono scientemente e paradossalmente avventati su di me, circondandomi mentre Sergio urlava: “Scappa Maurizio, scappa. Scappa che la teniamo noi !”.
Per effetto immediato Maurizio cambiava repentinamente registro, che da minaccioso si trasformava di colpo in piagnucoloso, assumendo in pieno il ruolo di mia vittima. Così io ero stata salvata dalla folle furia di entrambi e lui da un ennesimo ricovero.
Rinetta
Dopo tanti anni di manicomio eravamo riusciti a riportare a casa sua questa signora sessantenne. Andavo a trovarla con un infermiere e molto spesso anche con il medico, che peraltro era anche il primario del servizio; a volte ero io a fare il the che poi bevevamo insieme a lei.
Sembrava contenta, ma a dire il vero era molto spenta.
Parlavamo con i suoi vicini di casa e speravamo in una sua rivitalizzazione, ma era anziana e appesantita dalla lunga degenza; alla fine dopo mesi e mesi di prova, abbiamo deciso in accordo con i familiari di accompagnarla in un ricovero per anziani.
La figlia mi aveva fatto un regalo, che conservo ancora, ma il vero regalo era stato accorgermi che per lei era ben altra cosa andarla a trovare nel ricovero per anziani piuttosto che in manicomio. Per noi si era trattato comunque di un successo terapeutico, non era la guarigione il nostro obiettivo, ma aiutarla a vivere degnamente.
Paolo
Ho preso in carico Paolo nell’85 nel nuovo servizio dove mi ero trasferita, quello del Centro. Appena arrivata il nuovo primario mi aveva mandato per un mese in SPDC al Galliera, a conoscere il reparto di riferimento del servizio, per una specie di tirocinio.
E’ stato un mese molto proficuo. In reparto ero in realtà l’ombra del primario, che peraltro conoscevo dai tempi del Belvedere per aver partecipato come delegato sindacale alle assemblee della sesta divisione di Quarto, che lui dirigeva.
E’ da questo anziano primario che ho appreso un mare di nozioni psichiatriche sulla malattia, sui sintomi, sulle forme acute e croniche, sugli esordi schizofrenici, sulla depressione; finalmente le pagine del manuale dell’Ey si corredavano di esempi concreti. Con lui andavo anche in Pronto Soccorso, osservavo il suo agire, chiedevo spiegazioni, assistevo ai suoi colloqui con i famigliari e a quelli per le dimissioni.
Paolo era ricoverato da mesi in seguito a gravi episodi depressivi; sulla sua cartella c’era scritto depressione atipica (in quel periodo quasi tutti gli ammalati venivano definiti così), e mi viene affidato con il compito di fare con lui dei colloqui. Espressamente il primario mi dice: “dobbiamo riuscire a dimetterlo, i posti letto sono pochi, e lui sta indubbiamente meglio, anche se lo nega, aiuta la dottoressa X”.
Così ho iniziato, lui mi parlava delle sue allucinazioni dismorfiche, non voleva proprio uscire, era terrorizzato al pensiero che gli tornassero e poi, a suo dire, fuori non c’era nessuno che lo volesse, lì alla fine si era trovato bene, gli infermieri lo trattavano bene. A volte mi guardava con tale disgusto da farmi provare la sensazione di essere deformata ed è stata questa sensazione che paradossalmente mi permetteva di non mollare, di essergli vicino nel terrore, dovevo di nuovo resistere.
Dopo il mio mese di tirocinio in reparto, sono tornata in servizio, ma ho continuato ad andare a trovare Paolo in SPDC avendo sempre presente nel retro pensiero che l’obiettivo esplicito del mio compito erano le dimissioni.
Lui aveva scelto di vivere senza un passato e senza un futuro in quel presente che gli consentiva di annullare il tempo, come se non fosse mai nato e non dovesse anche lui un giorno morire; a me sembrava una forma di suicidio ma per lui era una legittima difesa dall’ansia di ritrovarsi in angosce inenarrabili.
Comunque non mi davo pace, pensavo che in fondo aveva solo quarant’anni, che era stato un operaio di riferimento anche per altri, che aveva fatto lotte sindacali, che aveva suonato la chitarra con i compagni e che ora non ne voleva sapere di tornare a vivere, ma allo stesso tempo avevo anche un po’ imparato a rimanere nell’attesa fiduciosa che potesse capitare qualcosa di nuovo, di diverso, di significativo.
Non faceva che sorridermi ed esprimeva lamenti davvero monotoni, finché un giorno mi aveva detto con fermezza che dovevo capire che la sua vita era finita ed è stato lì che ho preso la palla al balzo: benissimo, allora deve andare al Ricovero.
In fondo perché non dargli credito? Se lui riteneva che la sua vita stava volgendo al termine doveva andare nel posto giusto per questo!
Così con la dottoressa del Reparto abbiamo concertato di inserirlo in un ricovero per anziani che una coppia di ex-infermieri psichiatrici aveva appena aperto, peraltro molto vicino al suo quartiere.
Immaginavo che il cambiamento poteva costituire per lui una grande minaccia, ma allo stesso tempo questo mi pareva essere un cambiamento rispettoso dell’identità di “uomo finito” che lui stesso aveva deciso di affermare.
Discutiamo di questo in reparto e anche in servizio, poi con la macchina in dotazione la dottoressa ed io lo accompagniamo a vedere il posto, non mancando di illustrarglielo con enfasi.
Penso che la cultura della terapia sistemica che nel frattempo era entrata in servizio avesse poi dato a questo intervento, nato da un moto spontaneo, una certa autorevolezza e ci avesse consentito di mantenere viva la speranza nelle retrovie mentali.
Il paradosso avrebbe in effetti generato in Paolo una reazione che due giorni dopo infatti chiedeva di essere dimesso e di poter tornare a casa sua.
Per un altro anno è venuto settimanalmente in servizio ai colloqui con me e in SPDC dalla dottoressa per i farmaci.
Dopo un po’ ha ripreso a lavorare e a suonare la chitarra, poi ha trovato anche una compagna e infine ha salutato chiudendo prima con i farmaci e poi anche con i colloqui.
Era tornato nella sua strada, fuori dai circuiti psichiatrici.
L’ho incontrato per caso qualche volta: ricordo che ci salutavamo quasi imbarazzati per essere tornati ad essere due estranei; ma in fondo ne ero contenta.
In questa terapia ho pensato di aver scoperto che poteva sempre succedere che i risultati di una terapia potessero andare al di là delle previsioni psichiatriche, cosa che se da un lato mi faceva piacere, dall’altro mi riconsegnava all’inevitabile e fastidiosa incertezza.
Devo dire che facevo parte di una equipe territoriale in cui l’influenza culturale della psichiatra che la coordinava congiuntamente alla assistente sociale, è stata su di me alquanto proficua, metteva l’incertezza sotto un ragionevole segno positivo da collegarsi alla natura dell’essere umano.
Questa équipe era detta zona bassa e le sue riunioni riguardavano soprattutto la decisione della presa in carico dei pazienti.
In questi anni successivi all’85, la domanda d’aiuto continuava ad aumentare e la principale funzione dell’équipe consisteva nell’elaborare il progetto terapeutico sulla base degli elementi che venivano forniti dall’accoglienza, che allora si chiamava filtro.
Ogni presa in carico era preceduta da un’accurata discussione, da un pensare insieme alla persona, alla situazione ambientale e familiare e alle nostre concrete possibilità di intervento.
L’attenzione a non psichiatrizzare la domanda d’aiuto era ancora molto alta e per quanto possibile si cercavano risposte ai bisogni concreti anche attraverso la rete sociale.
Una serie di piccoli alberghi si erano convenzionati con noi, le parrocchie erano una grande risorsa sia per i pasti che per i momenti ricreativi, vari albergatori e parroci ci monitoravano le situazioni dei nostri malati e insieme ci prendevamo cura di loro, le assistenti sociali tessevano costantemente rapporti con le altre istituzioni, inventavano nuove risorse, e in questo modo senz’altro riuscivamo a ricoverare il meno possibile.
Ogni mattina l’SPDC ci comunicava i nomi dei ricoverati e a turno andavamo a conoscere là i nuovi pazienti da prendere in carico, ma non è durato molto; proprio da questi elenchi comunicati apprendevamo che per alcuni malati la porta dell’SPDC era diventata una porta girevole: poco dopo le dimissioni alcuni tornavano a chiedere il ricovero.
Nel giro di pochi anni è successo che noi operatori eravamo sempre nello stesso numero e che i pazienti aumentavano ogni settimana. Non c’era più tempo per niente, mancava soprattutto lo spazio per pensare insieme.
Ho continuato ad essere disponibile a seguire pazienti gravi, ma iniziavo ad averne anche tanti non psicotici.
Nel frattempo mi ero conciliata almeno in parte con la psicoanalisi e continuavo ad usufruire di supervisioni.
Credo che Searles mi abbia aiutato anche in questo, vedo che avevo ben sottolineato questa frase: “(...) va osservato che una società nei cui ospedali psichiatrici più di un quarto di tutti i posti letto è occupata da pazienti schizofrenici è una società che presumibilmente contiene importanti elementi schizofrenogenici, indipendentemente dalla particolare costellazione familiare del singolo individuo”.
Intanto stava per nascere l’ordine degli Psicologi e qualche collega mi aveva detto che per essere sanati bisogna avere nel curriculum un corso di formazione di quattro anni consecutivi. Ci ho creduto, così ho iniziato a frequentare Il Ruolo Terapeutico.
Matteo
Matteo era una persona piuttosto conosciuta in alcuni giri della città, ho provato io per prima ad avvicinarlo durante un suo trattamento obbligatorio nell’SPDC dove avevo avuto un incarico.
Il personaggio suscitava la mia curiosità, un po’ perché ne avevo già sentito parlare e un po’ perché sapevo che era stato in cura da psicoanalisti e psichiatri importanti.
Nel reparto non c’era stata prima di me nessuna psicologa e quasi tutti i medici mi ritenevano superflua. Ciononostante il primario mi assegnava compiti e nei suoi seminari teorici ho imparato nuove cose.
Matteo invece inizialmente non ne aveva voluto sapere di me.
Qui mi trovavo spesso in condizione di solitudine reale, passavo parte del tempo dentro il reparto con gli ammalati e gli infermieri e parte del tempo fuori nella stanza medica a studiare. Aprivo e chiudevo quella porta sempre accompagnata da forti emozioni.
In questo periodo, piuttosto segnato dall’isolamento, ho cercato di mettere ordine nella mia concezione del mestiere di psicoterapeuta e nella mia concezione della sofferenza psichica: al primo posto mettevo la conoscenza teorica, sentivo infatti l’esigenza di approfondimenti, poi c’era la riflessione sull’esperienza accumulata in quindici anni, sentivo anche l’urgenza di tradurla in concetti e il desiderio di trovare una corrispondenza con l’operato di altri colleghi e di sentirmi quindi padrona di un metodo.
I seminari al Ruolo Terapeutico rispondevano a questi miei nuovi bisogni.
è in questo contesto, a contatto con Matteo, che infine mi aveva accettata, che mi ostinavo a cercare “(…) un senso alla consapevolezza di quell’ inevitabile solitudine dell’essere umano a cui il paziente schizofrenico si oppone in modo tanto paradossale”, di cui leggevo in Searles, ed è qui che i miei vari tentativi di intraprendere un’analisi personale sono approdati ad un risultato.
Intanto nuove domande si affacciavano alla mia mente: era davvero possibile che la psicoterapia agisse sulla malattia mentale ? E se sì, cosa permetteva questo?
Matteo in realtà sembrava testimoniarne il fallimento perché dopo anni e anni di analisi e di cure psichiatriche si ritrovava lì e per di più in modo coatto.
Eppure dovevo tener conto del fatto che in tutti quegli anni di terapia aveva anche lavorato ed era stato stimato nel suo lavoro, tanto che in molti, incuranti della situazione, venivano spesso a trovarlo e si intrattenevano con lui in modo gioviale.
Dopo circa un anno di esperienza in questo nuovo reparto sono tornata nel servizio del Centro.
Carlo
Ormai nei primi anni novanta la riunione d’équipe era occupata soprattutto dalla necessità di suddividere il carico del lavoro e quindi la tensione del gruppo era tutta diretta alla distribuzione dei nuovi casi, sempre in aumento, sei sette, qualche volta anche otto alla settimana; il progetto di cura era totalmente delegato ai titolari o al titolare del caso.
La presa in carico era diventata frettolosa, orientata soprattutto dalla disponibilità in agenda di ciascuno e dalla soggettiva volontà di collaborare con questo o quell’operatore.
La mia mezz’ora con Carlo è iniziata per semplice richiesta del suo medico psichiatra che concisamente mi aveva comunicato che il ragazzo aveva avuto una “crisi giovanile”, che viveva con dei parenti del padre, che non aveva mai conosciuto la madre, e che era stato ricoverato in uno stato catatonico.
Ormai, a parte poche notizie, tra noi operatori si parlava in primo luogo di diagnosi. La persona, mi duole dirlo, veniva dopo, in prima istanza si imponeva la scelta della terapia farmacologia o il ricovero.
Con Carlo ho iniziato un’altra attesa, ero di nuovo alle prese con la speranza di vedere la vita rimettersi in movimento e con la paura che questo non succedesse.
Nei colloqui provavo ad essere senza memoria e senza desiderio, e se ci sono riuscita è solo perché nelle retrovie mentali mi era impossibile essere senza desiderio e senza paura rispetto al compito di aiutarlo a trovare ciò che potesse consentirgli di vivere bene la sua vita nel futuro e nel presente.
Durante il suo secondo ricovero sono andata a trovarlo in ospedale; non dimenticherò mai quel suo avvicinarsi a me nel lungo corridoio strisciando un piede dietro l’altro mentre balbettava ripetutamente con un cenno di sorriso o forse di piacevole sorpresa: “Dottoressa Sciorato”.
Mi ero emozionata, commossa per essere stata riconosciuta!
In seguito, i nostri incontri sono stati come tra due grandi amici, come tra due amici ritrovati.
Carlo era un ragazzo semplice, timido, buono, con lui era facile entusiasmarsi per piccole cose e in genere parlavamo proprio di piccole cose: ricette, luoghi, fatti di sport, fatti di cronaca cittadina e nonostante la sua lentezza nell’esprimersi, il tempo dei colloqui passava velocemente.
Nel ricordo ho come l’impressione che giocassimo con le parole e con i gesti; non so che peso possa aver avuto nella terapia il fatto che mi fosse così simpatico, ma per le mie trentotto ore di contatti umani alla salute mentale era buona cosa.
Ricordando Carlo penso che Pierfrancesco Galli abbia proprio ragione a dare un rilievo centrale alla questione del carattere, infatti mi sembra di poter dire con un senso di certezza che è stato grazie al suo carattere che gli si è spianata la strada per un nuovo adattamento alla realtà.
Forse questa terapia è stata un’esperienza emozionale correttiva o forse la lettura dell’articolo di Alexander mi ha fatto pensare che poteva essere stato così.
Due anni e mezzo dopo, i nostri colloqui si sono interrotti per un mio nuovo trasferimento.
Carlo è stato anche aiutato da una assistente sociale a trovare un lavoro, si è sposato ed ha avuto due figli; per anni ha continuato ad andare al servizio per il controllo della terapia farmacologica, che ovviamente deve aver fatto la sua buona parte in questa vicenda.
Margherita
Questa è stata una terapia speciale perché è durata dodici anni, perché ci siamo incontrate rigorosamente tutti i lunedì alle 14,30 in ogni servizio in cui mi trasferivo, perché è passata attraverso diversi supervisori, e perché da una mezz’ora all’altra le sue fantasie, le sue idee deliranti, le angosce, i sensi di colpa, le interpretazioni persecutorie dei comportamenti altrui, anche i miei, scomparivano, poi riapparivano, ma il senso, i significati che via via conquistavamo chiudevano le falle e le restituivano la capacità e la volontà di esserci e di trovare una sua collocazione sociale.
Con lei ho imparato a fare a meno dell’équipe, in sua assenza lo spazio della supervisione era diventato il luogo non istituzionale dove coltivare gli interrogativi, mettere a fuoco gli aspetti anche inconsci del mio fare nella relazione e dare contenimento alle emozioni.
La responsabilità degli interventi professionali non è senz’altro cambiata nel tempo ma, nella trasformazione silente dell’organizzazione istituzionale, penso che per ogni operatore ne sia cambiato il vissuto, che senza dubbio era meno ingombrante nel periodo della grande condivisione.
Più volte con Margherita ho pensato di non farcela e più volte lei stessa mi ha insegnato a non mollare.
Negli ultimi anni, quando era ormai capace di ricorrere ai farmaci da sola a fronte dell’insorgenza di qualche sintomo, c’è stato un periodo in cui non capivo più cosa fare, non capivo il suo bisogno, la sua domanda d’aiuto e verso cosa andare.
Un giorno il mio supervisore di allora mi ha chiesto: “Che storia c’è tra voi due?”, non sapevo rispondere ma la domanda aveva avuto il pregio di sbloccare il mio pensiero costringendomi ad orientare diversamente il punto di vista.
Era la storia di due persone che si incontravano su un terreno di reciproca preoccupazione, un modo questo, forse anche un po’ ligure e senz’altro a me familiare, di comunicarsi l’affetto.
Così l’impasse si era risolta positivamente.
Passata questa, abbiamo imparato a ridere insieme e a guardarci fiduciose.
Da lei ho ricevuto il regalo più bello: nel periodo in cui ero in cura per una malattia antipatica mi ha fatto un pane e me lo ha portato.
Michele
Michele è stata la mia ultima scommessa nel servizio pubblico.
Ho iniziato a vederlo nel 2001, quando conducevo un gruppo di psicoterapia, un gruppo “aperto” con un massimo di otto partecipanti e con una seduta settimanale di un’ora e mezza.
I pazienti del gruppo avevano tutti una diagnosi di depressione maggiore o di disturbo schizo-affettivo, ma fondamentalmente erano accomunati dal fatto di essere ritenuti dai propri medici, miei colleghi del Servizio, pazienti difficili perché molto resistenti a mettere in atto cambiamenti, in definitiva non riuscivano ad essere dimessi.
Difficile dire quanto questa “cronicità” fosse da attribuirsi alla malattia o alla dipendenza dal terapeuta, comunque sia, al di là della loro vita privata, che in parte era anche autonoma, continuavano ad essere pazienti nel tempo.
La mancanza di spazio nella mia agenda e la situazione ancor più pesante del carico di lavoro dei medici avevano stimolato e favorito la nascita di questa terapia di gruppo, per la quale avevo avuto il sostegno e la preziosa guida del primario.
Nel servizio i ruoli professionali si erano ormai definiti in modo chiaramente gerarchico, e insieme al potere anche il sapere e il saper fare avevano in parte subito, complice la questione della responsabilità legale (medico-legale), la stessa sorte.
La psicologia, la psicoanalisi, il pensare insieme ai casi clinici e spesso persino il buon senso non erano più nelle priorità, al loro posto la preoccupazione principale verteva sugli aspetti diagnostici e farmacologici e sulla necessità di ottimizzare gli interventi e - diciamo così - di evitare “grane”.
La farmacologia aveva in effetti fatto in questi anni molti progressi, contribuendo,penso, a far prevalere culturalmente il concetto di malattia in luogo dell’abominevole devianza, ma spostando anche di molto il peso verso una concezione biologica della sofferenza psichica.
Ciononostante bisogna dire che in questo servizio in modo informale, nei lunghi pomeriggi di turno, si sono sempre attivate spontaneamente nicchie di pensiero, modalità di solidarietà, confronto e collaborazione tra operatori di diversi ruoli, tanto che con un pizzico di malizia nei confronti di una istituzione assente o dimenticata, venivano vissute come sane trasgressioni.
In ogni caso non ha mai smesso di circolare una forte affettività tra tutti noi.
Questo era il clima del servizio anche quando mi viene segnalato Michele per la terapia di gruppo.
Michele era stato in cura dall’età di ventisei-ventisette anni, prima da terapeuti privati e da due anni nel nostro servizio. Aveva passato da un po’ i trent’anni e aveva accumulato sei terapeuti nel suo carnet.
Al primo incontro mi aveva così apostrofata:
“Senta mi manda il dottor X, mi ha detto che devo fare questa terapia di gruppo, io non ne ho nessuna voglia, a me non interessa nessuna terapia; la psicologia , la psicoanalisi non servono a niente, ma sono costretto a partecipare a questo gruppo perché altrimenti lui mi ricovera ,intende ricorre al Trattamento Sanitario Obbligatorio. è in suo potere e se non entro nel gruppo, lui lo farà”.
Andiamo bene, avevo pensato e subito avevo tagliato corto:
“Capisco i suoi problemi con il medico, ma potrei accettarla nel gruppo solo se fosse lei e non il medico a volere questo”.
“No, no, non ne ho nessuna voglia, davvero non credo che la psicologia serva a qualcosa! ... e poi ho già fatto psicoterapia con il dott. K. per anni e non è servita a nulla!”.
“Bene! Allora possiamo salutarci”.
Ridacchiava, avevo l’impressione che non credesse affatto che stavo dicendo sul serio, infatti con un certo sarcasmo mi aveva chiesto se era questa la mia tattica.
Era davvero riuscito a farmi arrabbiare: lui e qualche medico si sovrapponevano nella mia mente, rappresentativi entrambi di una concezione della psicologia e della terapia che non mi appartiene e che mi offendeva molto.
Più volte, in quel colloquio, Michele ha tentato di piegarmi alle sue ragioni, seccato e animato perorava la sua causa, ma a tratti i suoi occhi mi avevano rivolto uno sguardo carico di un desiderio struggente di aiuto o almeno così mi pareva.
Mi dispiaceva quindi non potergli essere d’aiuto ma non potevo proprio accettarlo nel gruppo a quelle condizioni, così l’avevo infine salutato dicendogli che senz’altro con quella verve avrebbe trovato il modo di difendersi dal medico.
Mi è rimasta l’immagine di quella scena in cui eravamo entrambi drammaticamente decisi nel voler essere rispettati in quella inevitabile e dolorosa situazione di incompatibilità: io mi ero rivolta a lui come ad una persona dalla mia concezione dell’essere umano, e lui si era rivolto a me come ad un terapeuta dalla sua concezione dei terapeuti.
Oggi è con soddisfazione che posso dire che certamente il mio stile lo aveva in qualche modo incuriosito. Infatti dopo qualche giorno mi aveva chiesto se ero disponibile per una terapia individuale,ma non avevo disponibilità in agenda per questo tipo di intervento, e quindi si era ripetuta la scena: o il gruppo o niente.
Aveva poi fatto passare ancora un mese per chiedermi di entrare nel gruppo perché era interessato a conoscermi meglio.
Il contratto prevedeva, come per ciascun membro del gruppo, che dopo tre assenze consecutive e non preventivamente concordate con me, avrebbe perso il posto, che tornava a disposizione del servizio per nuovi pazienti.
Michele è stato nel gruppo circa due anni, ed è sempre venuto ad una seduta sì e a due no. Io non ho mai commentato questa sua modalità.
Questo è stato solo l’inizio di una terapia durata sette anni; negli anni a seguire sono successe tante cose nella sua vita e nel nostro rapporto terapeutico, che con costanza è stato sempre orientato alla ricerca delle condizioni più adeguate per il raggiungimento di una stabilità, in una sorta di parallelismo con le sue reali possibilità.
Scelgo ora, tra gli appunti dell’ultimo anno, di riferire un passaggio della prima seduta dopo un periodo di mie lunghe ferie, durante le quali un mio familiare aveva ricevuto al mio posto una sua telefonata, ma poi lui non aveva più richiamato.
Nel parlare di questo fatto Michele mi aveva detto:
“Penso che solo con una psicoterapia potrò capire cosa mi impedisce di sentirmi a posto”.
“Si vede che in questa mia lunga assenza ha iniziato a fare i conti con il fatto che io ho una esistenza mia propria, separata da lei”.
“Si è così, ho scoperto di essere geloso, di essere arrabbiato per non avere un rapporto esclusivo con lei, come un vero figlio”.
E alla fine della seduta già ormai sulla porta:
“Ma lei mi vuole bene?”
Gli avevo stretto un braccio e sorridendo l’ho salutato:
“Continuiamo la prossima settimana”.
L’attenzione alla coerenza, ad una comunicazione autentica formulata in modo rispettoso a fronte dell’autenticità e spontaneità delle sue espressioni ambivalenti e provocatorie, mi ha piuttosto impegnato sia sul piano umano che professionale e a tal proposito concludo citando Biswanger: “Il rapporto tra medico e malato costituisce invece sempre un qualche cosa di propriamente nuovo nel piano della communio, un qualche cosa di nuovo che crea nuovi vincoli di fronte al destino. E questo sia detto non soltanto in riferimento al rapporto medico-malato, ma anche e soprattutto al rapporto interumano , inteso come un autentico essere insieme (Miteinander)”. (L. Biswanger, Per un’antropologia fenomenologica)
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