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DALL'ETICA DEL DOVERE ALL'ESTETICA DEL VOLERE

di Paolo Chiappero (L’articolo pubblicato sul n.3 di Varchi) Qualche riflessione intorno al concetto di autenticità

E noi viviamo, noi respiriamo, soltanto se bruciamo, e bruciamo (T.S. Eliot)

Di cosa parliamo quando parliamo di autenticità? Si potrebbe iniziare così, pa­rafrasando il titolo di un celebre romanzo di Raymond Carver.

Per questo motivo preferisco cominciare dal concetto di autenticità, per giunge­re in seguito al suo incontrarla (o no) in quella particolarissima forma di relazione tra due persone che è il dialogo psicoanalitico.

Il termine autenticità rimanda a campi semantici che includono sinonimi e con­trari quali: genuinità, originalità, validità, verità, franchezza, onestà, sincerità, sponta­neità, da un lato, e doppiezza, falsità, finzione, imitazione, dall’altro. Possiamo anche usare il sostantivo autenticità come intensificatore di un appellativo. In questo caso esso perde i connotati positivi dei suoi vari significati e sinonimi e diventa neutro. Ad esempio possiamo dire “è un autentico bugiardo”. L’autenticità della falsità, quindi.

Ma se esiste, oltre alla vastità del campo semantico, anche la possibilità di una sorta di paradosso (la “falsità autentica” ad esempio) credo che dobbiamo rivolgere lo sguardo altrove, e restringere il campo dei significati e dei significanti. Sia per poterci comprendere… autenticamente, sia per entrare nel tema dell’autenticità nell’incontro analitico.

Rimanendo il più possibile fedeli all’etimologia del termine autentico (dal greco autentikòs: “Che opera da sé”) non possiamo non pensare a una caratteristica che sia “veramente mia”, a un modo di essere che rispecchia i contenuti genuini e veri del Soggetto. Riprendendo le parole del filosofo danese Soren Kierkegaard: “Essere ciò che veramente si è”.

Ci riferiamo quindi a un Soggetto che, per quanto sovradeterminato biologica­mente e culturalmente, è “altro” rispetto alle sue origini e aspetti costituzionali, così com’è altro (o dovrebbe essere) relativamente al “modo comune” (Heidegger, 1927) del mondo in cui vive.

Sempre seguendo Heidegger, dobbiamo tenere presente la distinzione tra “onti­co” (l’essere che esiste singolarmente, come ente tra vari enti, determinato nel tempo e nello spazio) e “ontologico” (che riguarda la conoscenza dell’Essere, ed è irridu­cibile al semplice ente tra tanti). Questa distinzione è importante per un discorso sull’autenticità, quanto sulla Psicoanalisi in generale, perché il pensiero del filosofo tedesco rileva come la Scienza sia “ontica”, perché considera il soggetto, un ente tra gli altri, un “che cosa”, mentre la peculiarità della visione “ontologica” è un “chi”, una “esistenza”. Il concetto di autenticità, così come l’incontro autentico tra Soggetti (in

Psicoanalisi come in altri contesti), ha come presupposto un “essere nel mondo”, che Heidegger, con efficacia, chiama “Da-sein” (“Esser-ci”).

Proprio in virtù di quanto appena detto, nella mia concettualizzazione il signi­ficato di “originalità” è posto in secondo piano, a causa del suo mettere in risalto una dimensione temporale, diacronica (le origini). Al contrario la “partita” dell’autentici­tà, e soprattutto dell’autenticità dell’incontro, si gioca nel presente, nell’hic et nunc dell’incontro e della relazione analitica. Nel “da-sein”, appunto.

Non si tratta di misconoscere il nostro passato, ma di considerarlo operante nel presente, sotto forma di continui aggiustamenti, modifiche, ribaltamenti veri e propri e “riedizioni”. E’ ciò che S. Freud (1914) ci ha insegnato con il suo concetto di Nachträglichkeit, funzione naturale nell’uomo, che consente una rielaborazione del proprio passato attraverso nuove esperienze del presente e/o accesso a nuovi e più elevati livelli di sviluppo personale. Questo concetto ha recentemente ricevuto nuovi impulsi anche dalle ricerche del neurobiologo Edelman (1990) che parla di un “presente ricordato”.

All’interno di questo mio vertice di osservazione, che chiamerei di “eterno pre­sente”, si sviluppa un “Sé che opera da sé” (vedi sopra: l’etimologia di autenticità). Dove, il “da sé”, non deve essere interpretato come atteggiamento solipsistico, ma come Sé agente.

Il sentimento di essere l’autore delle proprie azioni, specifico del Sé agente, prevede una sensazione di volizione e la conoscenza di “costanti” che ci permettono di identificarci, connotarci. A tutto ciò concorrono anche il senso di coesione e con­tinuità del Sé (Stern, 1985).

Queste affermazioni ci possono far ipotizzare che per alcune persone, in virtù di gravi problematiche del Sé, possa essere oggettivamente difficile fare un’esperienza di autenticità.

Ma può esistere una misura di quest’ autenticità? Una sorta di “autenticometro” che può segnalarci, contemporaneamente o a posteriori, la sua misura? Ovviamente no. E aggiungo: l’autenticità o c’è o non c’è. Quindi va inscritta in una visione cate­goriale e non dimensionale. In caso contrario, per metterla in battuta, faremmo come quello che, alla domanda se la moglie era in stato di gravidanza, rispose: “E’ incinta, ma solo un po’”.

Mi riferisco ovviamente allo stato di autenticità, perché sostengo che non esista una persona perennemente autentica o una relazione (fosse anche la più intima) in­variabilmente autentica.

Un altro restringimento del campo di analisi deriva dalla seguente opinione di chi scrive. Questo “stato”, anche nella sua declinazione interpersonale di “incontro autentico”, trova posto nell’ambito dell’Estetica, piuttosto che dell’Etica aristotelica (valutazione del giusto comportamento) o della scientificità (il “vero” della Scienza, dimostrabile e falsificabile in termini popperiani).

Così, dopo aver inteso il nostro oggetto di riflessione come “fenomeno” e non come tratto invariante di una persona o di una relazione, ci affranchiamo anche sia da un’autenticità legata alle antinomie “giusto”/ “sbagliato” (per quanto riprenderò alla fine dello scritto il discorso sull’Etica), sia dall’autenticità come fenomeno validabile scientificamente. Il cerchio dei significati ora si è molto ristretto.

Non solo. Porre l’autenticità e l’incontro autentico nell’ambito dell’estetica ci ricorda il pensiero di Diderot (1751) in proposito.

Il celebre illuminista francese, partendo dall’opera d’arte, ritiene che solo da un incontro tra il sentimento del soggetto-spettatore con l’oggetto artistico possa nasce­re il bello. L’estetica diventa così risultato di un rapporto, di un incontro.

E’ il rapporto con noi stessi (come persona intera) che ci fa dire: “Mi sento me stesso” o più esplicitamente “in questo momento mi sento autentico” così come nel nostro lavoro diciamo o pensiamo: “Ma che bella seduta!”, “Che bel momento insie­me!”. Ciò avviene all’insegna dei sentimenti più diversi (gioia, sconforto, angoscia, serenità, ecc.) ma comunque sentiti come “belli”, poiché autentici.

La discriminante non è tra sentimenti positivi vs negativi, emozioni primarie vs emozioni secondarie o altre possibili distinzioni, ma tra autentico e inautentico. “L’autentico indica la qualità germinale del proprio esserci, più afferrabile per con­trapposizione all’ “essere conforme a” che non per una (impossibile) definizione posi­tiva. L’autentico è un dato intuitivo dell’esperienza del proprio o altrui esserci, e non ha alcuna possibilità di verifica oggettiva (perché non pertinente ad alcun “oggetto”)” e ancora “l’autenticità fa riferimento al suo [della persona] rivelarsi nell’immediatez­za di un suo proprio “ecco ci sono” (Napolitani, 1987).

Psicoanalisi ed autenticità

Sono amico di Platone, ma sono ancora più amico della Verità (Aristotele)

Nella Psicoanalisi contemporanea possiamo trovare differenti modalità di ac­costarsi al concetto di autenticità. Spesso essa è un ideale che travalica i confini della Psicoanalisi e permea l’insieme della cultura moderna.

I campi semantici che si sviluppano a raggiera, partendo da questa parola, sono innumerevoli. A volte si parla di autenticità senza nominarla, e altre volte la si nomina senza parlarne veramente. Si può essere inautentici anche parlando di autenticità.

L’autentico, inteso come “veramente mio” e che io, Soggetto, percepisco come tale1, rischia spesso di essere reificato, collocato in un tempo preciso, quando non trasformato in tecnica. “Autenticità. Istruzioni per l’uso”, potremmo dire. Come se non si trattasse di un’ingiunzione paradossale. “Sii autentico”, suona come “sii spon­taneo”.

Ma nel mercato della Tecnica e delle tecniche poteva mancare l’addestramento

1 Il che non significa averne una visione precisamente consapevole nell’hic et nunc del suo manifestarsi. Qui c’è la differenza tra l’esserne coscienti perché legato alle nostre sensazioni e la “presa di coscienza” vera e propria, di cui si è occupata la psicologia funzionalista del secolo scorso. Accade sovente che solo a posteriori abbiamo una vera e propria “presa di coscienza” dei nostri atti autentici.

all’autenticità? Purtroppo no. Tantissimi corsi e seminari (il più delle volte in am­bienti aziendali, altre all’interno di atmosfere un po’ new age) propongono di “miglio­rare” la nostra autenticità. “Ottimizzarla”, “implementarla”, “massimizzarla”. Sono tutti obiettivi che dovrebbero essere correlati o con migliori performance produttive oppure, nel migliore (?) dei casi, a “ritrovare te stesso!”

Oppure essa diventa sinonimo di originalità. Mi riferisco al suo significato let­terale: “risalente alle origini”.

Qui possiamo trovare varie concettualizzazioni, tra le quali quella freudia­na dove le pulsioni sono un fattore primigenio, che rappresenterebbe “l’autentico” dell’essere umano, cui si contrappone la civiltà. Solo attraverso le pulsioni potremmo trovare la spiegazione più profonda dell’individuo, ben occultata dall’influsso di cul­tura e civiltà. Una posizione che Freud ben esporrà nel “Disagio della civiltà” (1929), che lo spinge a sostenere che “Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché l’uo­mo stenti a trovare in essa la sua felicità”, tanto che la stessa “libertà individuale non è un frutto della civiltà (…) la libertà subisce delle limitazioni ad opera dell’incivili­mento…”. Pulsioni e libertà individuale sembrano variabili indipendenti, scollegate a quella matrice relazionale ed intersoggettiva che in realtà agisce fin dalle origini. Oggi, nella Psicoanalisi contemporanea, anche gli autori che mantengono nel loro lessico il termine di pulsione, la concettualizzano in genere come un dato continua­mente modellato e condizionato dai contesti psicosociali e culturali in cui nasce e vive l’individuo. Ma attenzione. Il concetto di originalità può diventare anche il “cavallo di Troia” per un suo uso che non si differenzia più da quello di “temperamento”.

In realtà non esiste un temperamento come variabile indipendente, ma caso mai un corredo biologico-genetico che, già prima della nascita, interagisce con l’ambien­te psicosociale e culturale. Tra fattori costituzionali, Sé corporeo e temperamento sovente si continua a cercare un “qualcosa” che sia più “originale” e personale e allo stesso tempo più antico. Ipotizzando, erroneamente, che possa esistere nel bambino un’autenticità primitiva, pre-verbale e indipendente dal mondo relazionale.

Altre concezioni, che vogliono “salvare” qualcosa di originario e irriducibile sono, ad esempio, il concetto di “vero Sé” di Winnicott o quello di “idioma” di Bollas. Si tratta di teorizzazioni che, al di là del loro riconosciuto valore d’uso nella clinica, rinviano a un’errata concezione dello sviluppo umano se prese alla lettera. L’essere umano sarebbe dotato di un “Sé primigenio”, esistente indipendentemente anche dalle più precoci esperienze ambientali ed interpersonali. In questo caso sarebbe l’ambiente a bloccarne la crescita (da cui il concetto di arresto di sviluppo).

Siamo così passati dalla “colpa” della civiltà alla “colpa” delle precoci esperienze ambientali e interpersonali, che soffocherebbero (è proprio il caso di dire…..sul na­scere) ciò che vi è di più autentico e naturale nell’uomo. Insomma, la logica abusata e superficiale, di frasi del tipo “il bambino che è in me”!

Così si perde di vista che il nostro Sé, o meglio ancora: i nostri Sé sono il pro­

dotto di variabili legate al costante rapporto con gli altri significativi già dal periodo pre-natale. Quindi ciò che io sento come autentico, come “mio”, è a sua volta sintesi di situazioni relazionali attuali e passate, dove ha preso forma e si è costruito (e si continua a costruire). Bisognerebbe dire: “Ciò che in questo momento della mia vita sento mio”. Infatti, i cambiamenti più profondi nella nostra sfera personale e identi­taria hanno spesso proprio a che fare con il non sentire più “mio”, ciò che una volta lo era.

In altri casi ancora, il rischio è di pensare che l’autenticità sia positivamente cor­relata con l’istintualità. Che è un modo per far entrare dalla finestra ciò che si è fatto uscire dalla porta (cioè il “primitivo”, il “naturale”). In realtà molte manifestazioni emotive hanno il ruolo di difese verso altre (l’aggressività come difesa dalla depres­sione) o, più semplicemente, non vengono esperite come proprie (“non ero io” o “era più forte di me”), o ancora: possono essere reazioni emotive legate a una strategia interpersonale quindi, nonostante l’apparenza, casi d’inautenticità vera e propria.

Questi ultimi esempi ci riportano anche a certe sopravvalutazioni del “vissuto”, dell’espressione delle emozioni, del “fare esperienza”. Tanto che, per fare un esempio legato alla situazione clinica, a volte pare che se in una seduta il paziente non ha pianto non si tratti di una seduta “autentica” (e quindi di una “bella seduta”). “Ma mi faccia il piacere…..” direbbe Totò.

La stessa inattendibilità è fornita dalle concezioni che si rifanno a un Sé au­tentico in termini spaziali. Dove sarebbe questo Sé? E’ un Sé “vero” che sta sot­to quello “falso”? Una specie di homunculus, situato spazialmente? Dove troviamo questo “me reale” (Bromberg, 1998) reificato? Forse in qualche circuito cerebrale che le neuroscienze devono ancora scoprire? Oppure corrisponde all’Es freudiano? O al “Sé nucleare”? O, come hanno proposto altri autori (ad es. Schafer, 1978), la nostra autenticità, il nostro vero Sé, lo troviamo nel nostro corpo?2

Questa sorta di ricerca topografica di un Sé autentico (che sfida qualunque na­vigatore satellitare…per fortuna), anche quando siamo in assenza di reificazioni che lo collochino anatomicamente, si situa ancora una volta nella linea di un’autenticità come “stato”. Localizzabile spazialmente e/o storicamente.

In realtà Stern (1985, cit.) sostiene giustamente che i diversi “sensi del Sé” (di cui si occupa nella sua vastissima opera) coesistono insieme nell’esperienza adulta, come nel nostro mondo relazionale e quindi nell’esperienza analitica. Così come ogni stadio evolutivo non elimina ma assorbe e integra quelli precedenti, ciò avviene anche con le nostre strutture intrapsichiche. Non esiste un Sé nucleare che possiamo inten­dere come veramente originario e indipendente da qualunque influsso ambientale e relazionale (prospettiva diacronica). Così come non esiste un Sé, o una sua parte, che possiamo giudicare più vero di altri, più autentico, se non “l’autentico”.3

2 Groddeck, da cui Freud mutuò il termine, scriveva: “Una forza meravigliosa [l’Es] che dirige a un tempo ciò che egli fa e ciò che gli succede (…) l’uomo viene vissuto dall’Es” (Groddeck, 1923).

3 Già Nietzsche (1887-1888) ci ammoniva che “Soggetto è la finzione derivante dall’imma­

Nella psicoanalisi dell’ultimo mezzo secolo sono moltissimi gli autori che, usan­do metafore e definizioni diverse, hanno ipotizzato l’esistenza di molteplici Sé e varie parti di ogni Sé, generati in diversi ambienti relazionali e culturali. Questa “moltepli­cità del Sé” (e dei Sé) si trasforma in autenticità nella misura in cui esiste una conti­nua dialettica e, relativa, integrazione tra varie parti del Sé (e tra i Sé).

E’ necessario che non sia preclusa la comunicazione tra di essi, o quello che io chiamo il “riconoscersi a vicenda”, come parte di un tutto, anziché essere attraversati e sezionati da scissioni. Non solo. Tutto ciò diventa un vero e proprio obiettivo della terapia analitica. Un autore che ha approfondito molto efficacemente questa tematica è Bromberg (1998, cit.), cui rinvio il lettore.

Dopo aver citato alcuni modi di accostarsi al problema dell’autenticità non con­divisibili da chi scrive, proviamo ad assumere un differente vertice di osservazione. Esso caratterizza l’autenticità (oltre al già citato senso di un Sé agente) come esisten­te nell’hic et nunc. Di conseguenza il mio essere autentico non lo dovrò cercare “là” ma “qui”, e non “allora” ma “ora”.

In ogni momento e attraverso ognuno dei nostri Sé (pur operanti a diversi livelli di coscienza e di contenuti che rappresentano) noi possiamo vivere attimi, momenti, periodi più o meno lunghi, in cui sentiamo noi stessi autentici. Ma questa auto-percezione si sostanzia contemporaneamente di aspetti emotivi, percettivi e cognitivi. Perfino la nostra percezione del mondo è tale da contenere già, in nuce, la nostra cultura di appartenenza e le nostre esperienze passate. E lo stesso vale per le funzioni cognitive, che per altro seguono linee di sviluppo differenti proprio in base al dispie­garsi della nostra vita relazionale e sociale.

Per rimanere alla vita quotidiana: se io percepisco un senso di autenticità mentre partecipo a una manifestazione politica, questa mia “sensazione”, sarà in realtà un fenomeno molto più complesso di quanto può apparire, perché costituisce un vero e proprio precipitato di aspetti biografici, relazionali attuali, percettivi, cognitivi e culturali (comprendendovi tutto il mio sistema di valori).

Non possiamo chiamarci fuori dalla cultura in cui viviamo. Non nel senso dell’inautenticità heideggeriana del senso comune o della maggioranza, ma in quello di caratteristiche che sentiamo nostre, orientano il nostro agire nel mondo e di esse portiamo la responsabilità etica.

Non sono importanti i contenuti, nel distinguere tra autenticità e inautenticità, ma la mia esperienza complessiva di “verità” rispetto al me stesso che sono in questo momento e nel contesto in cui sono situato.

Da questo “modo di essere” (che chiamiamo autentico) ne discendono altre ri­flessioni ed elementi. Rogers (1994), ad esempio, ha evidenziato che l’autenticità si collega ai concetti di congruenza (coerenza dei nostri atti con il senso di autenticità) ginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’“uguaglianza” di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e sistemarli, non l’uguaglianza (che anzi è da negare) ” [il corsivo è mio].

e di trasparenza (volontà di esprimere tutto ciò nel nostro incontro con l’altro, in un rapporto soggetto-soggetto).

Quindi l’autenticità, anche intesa come “accadimento” piuttosto che come qua­lità intrinseca, deve accompagnarsi al senso di autenticità. Essa diviene così, a mio parere, “senso” e “ricerca di senso” allo stesso tempo, da parte di un soggetto che si sente agire (e non essere agito) da essa.

La stessa ricerca di senso della nostra vita, così costretta tra il tragico dell’esi­stenza e i limiti invalicabili della stessa, si avvale del nostro sentirci autentici.

Quest’ultimo punto è oltremodo importante perché permette di distinguere tra autenticità e spontaneità, o tra autenticità ed acting. In quest’ultimo, ad esempio, è fuori discussione che emerga una parte scissa e non pensata, di me stesso, ma irrompe me malgrado, come si suol dire: “È più forte di me”. Ciò non esclude che proprio attraverso il provare a capire il perché di tutto ciò, non si scoprano aspetti di noi de­stinati a diventare nostri, autentici.

Come non scorgere qui la caratteristica saliente della terapia analitica, nel suo porsi lo scopo di allargare i confini del Sé?

L’incontro con l’altro nella stanza di analisi.

Come mi batte forte il tuo cuore (Wislawa Szymborska)

Oggi, uno degli scopi principali di una terapia psicoanalitica, è “la costruzione di un senso di identità più ricco ed autentico” (Mitchell, 1993). Ma a questo obiettivo non si giunge (o non solo) attraverso dei contenuti da comprendere, ma attraverso il processo stesso, o meglio ancora attraverso quello che io definisco: un processo che tende a massimizzare le interazioni e le sensazioni di autenticità, in una prospettiva bipersonale.

E’ una prospettiva che possiamo trovare anche nella psicoterapia umanistico-esistenziale, sia attraverso il concetto, già citato, di “esserci”, sia nel richiamo al “modo di essere nel mondo” (Heidegger). Sarà Binswanger (1945), psichiatra svizzero, a de­clinare questa visione nel “propriamente suo” e dunque “autentico” dell’uomo e anche purtroppo del suo contrario: “In luogo della libertà di far sì che il mondo accada su­bentra la non libertà dell’essere dominato da un determinato progetto del mondo”.

In definitiva possiamo dire che un processo psicoterapeutico, che si svolge in un campo intersoggettivo, necessita di situazioni percepite come autentiche, in vista dell’obiettivo di rendere sempre più presente nella vita del paziente…..l’autenticità! Non è un gioco di parole, ma una faccenda molto seria: si deve co-costruire, tra tera­peuta e paziente, un processo costituito da “sufficiente autenticità” (nel suo svolgersi, quindi in itinere), da far emergere il più possibile l’autenticità dei due Soggetti, dive­nendo fattore di “cura”4.

4 Il co-costruire deve essere inteso anche come co-creazione tra terapeuta e paziente. Solo in una relazione che tende a vivere quanto più è possibile di momenti autentici, può trovare posto l’atto creativo dei singoli e della coppia al lavoro (sul ruolo della creatività nella terapia psicoanalitica vedi ad es. Chiappero, 2003). Queste riflessioni, intrise di reciprocità e simmetria non devono farci perdere

In questa prospettiva è implicito che ci sia una diversa concettualizzazione dei fattori di cambiamento in psicoterapia, con una maggior focalizzazione su quelli “aspecifici”, rispetto a quelli “specifici” propri di ogni metapsicologia e teoria della tecnica.

Così come va esplicitato che, chi scrive, si pone in un’ottica intersoggettiva della situazione analitica che comprende tutti i vari livelli di rapporto presenti: transferali e controtransferali, alleanza terapeutica e relazione “reale”.

Quando parliamo di intersoggettività, alludiamo ad un’interazione che non ha soluzione di continuità, che utilizza tutte le possibilità dei nostri vari codici comu­nicativi e che può essere pensata come motivazione primaria dell’essere umano, nel suo intrecciarsi con gli altri sistemi motivazionali, in primo luogo quello dell’attac­camento.

Questa posizione teorica esclude tanto una Psicoanalisi unipersonale (quella dell’analista-specchio, per intenderci ed essere ultra-sintetici), quanto quella di certe posizioni attuali di tipo interpersonale radicale (ad es. Levenson 1983), che sembrano ignorare l’esistenza dell’intrapsichico e ritengono che sia importante solo ed esclusi­vamente quanto avviene nella relazione terapeuta-paziente. Così come rifiuta l’equa­zione auto-disvelamento=autenticità dell’analista oppure autenticità=comunicazione del proprio controtransfert (anche “l’analista in mutande”, felice espressione coniata da P.F. Galli, può essere “dogmaticamente” in mutande, se il nuovo verbo è: “Devi presentarti nudo”).

Ritornando sui nostri passi, quello che intendo chiarire è che non esistono un analista autentico e un paziente autentico (con buona pace di certi resoconti clinici che, nella migliore delle ipotesi, trasudano di pseudo autenticità, “buonismo” e ide­alizzazioni vissutistiche). Esistono dei momenti autentici, dei “momenti di incon­tro” (Stern, 2004), in cui i due soggetti interagenti possono porsi uno nei confronti dell’altro (oltre che di se stessi) come dei Sé agenti.

I due soggetti in questione “conoscono” il loro essere autentici non tanto attra­verso una conoscenza nel senso letterale del termine (che enfatizza il dato cognitivo e riflessivo), ma attraverso una conoscenza implicita di sé (il cosiddetto conosciuto non pensato).

Queste situazioni dell’hic et nunc della seduta avvengono in una cornice con­traddistinta dal “io so che tu sai che io so” e dal “io sento che tu senti che io sento”. Tutto questo crea una “autenticità relazionale” (Bromberg, 1998, cit.).

Si tratta di periodi più o meno lunghi all’interno del tempo della seduta, così ben noti ai terapeuti, ma che si differenziano da ciò che avviene nelle nostre relazioni sociali sostanzialmente per due motivi: a) perché funzionali ad una relazione che di vista l’aspetto inevitabilmente asimmetrico della relazione analitica. La stessa processualità si può sviluppare utilmente proprio in virtù degli aspetti strutturali: ruolo, setting, coordinate spazio-temporali (tra i vari autori che si sono occupati di questi due aspetti e della loro relazione dialettica cito Hoffman, 1998, per l’esaustività delle sue considerazioni).

chiamiamo terapeutica e quindi con una asimmetria e degli scopi specifici b) perché, per quanto appena detto, si cerca di creare il più possibile le condizioni interne ed esterne perché l’autenticità del rapporto sia sempre più presente attraverso questi momenti di incontro.5

Questi momenti di incontro, proprio perché non sono riducibili ad una qualche norma o “operazione” tecnica, sono affettivamente carichi e tendono a portare modi­fiche nel campo intersoggettivo terapeuta-paziente. Hanno cioè effetti mutativi, non solo nel senso intrapsichico (dove il focus è solo sul paziente), ma proprio nell’espe­rienza interrelazionale vissuta da ambedue i partecipanti al rapporto.

Nella mia concezione di “cura”, tutto ciò si concretizza nella possibilità che il percorso analitico diventi un’esperienza emotivo-cognitiva contraddistinta da più “momenti ora” che, al di là del loro singolo valore, creano quella che io chiamo una “esperienza di autenticità cumulativa”. Che racchiude tanto gli accadimenti più im­portanti dell’analisi, quanto quelle stesse costanti anche strutturali, che ne permetto­no lo svolgimento.

Quanto è stato appena detto, si trasforma anche in un potenziale volano per una maggior costruzione di “senso” delle nostre esperienze interpersonali, e della com­plessità delle nostre parti del Sé. Ovviamente, se assumiamo tra gli obiettivi di una terapia analitica l’allargamento dei confini del proprio Sé, ci troviamo in una situa­zione potenzialmente sempre in evoluzione per il Soggetto.

Attraverso l’esperienza intersoggettiva con l’Altro-terapeuta, si farà l’esperienza dell’essere capito, e non solo del capire. Dell’essere visto e non solo del vedere.

Allargare i confini della propria identità e del proprio Sé, rivela anche che ciò che oggi viene vissuto come inautentico domani potrà essere percepito autentico, e viceversa. “Riprenderci parti di noi”, negate, scisse e “non pensate”, significa una più ampia gamma dell’esperienza di Sé. L’esperienza di Sé, del rapporto Sé-Altro e, di conseguenza, l’esperienza che facciamo dell’Altro, mutano, si arricchiscono, si inte­grano in un tutto dotato di maggior coesione intrinseca e capacità di distinguere il me dal non-me.

Abbiamo così un Sé multidimensionale, non tanto in senso contenutistico, o in senso verticale (raggiungimento di maggiori livelli di “profondità”), ma in senso orizzontale. Un allargamento, appunto. Che permette di dare voce a “voci” fino ad oggi misconosciute o considerate inautentiche.

Pensando alle voci soffocate, non riconosciute, ma “che bussano alla porta” (Bromberg, 1998, cit.) ho ritenuto utile presentare una storia clinica. La scelta di utilizzare due “tranches” di analisi della stessa paziente è dovuta al tentativo di ridurre

5 A scanso di equivoci, in quest’era dominata dalla tecnica e dal tecnicismo, non mi riferisco a qualche “tecnica” che sviluppi l’autenticità. Trattasi, invece, di un processo interminabile di costruzione della competenza di sé del terapeuta (che include la capacità e la volontà, di essere autentico), unita ad una serie di atteggiamenti che si pongono anche come modelli identificatori per il paziente nel suo percorso d’individuazione e autenticità personale. Il tutto in una logica non prevedibile, perché specifica di quella coppia paziente-terapeuta.

il più possibile le variabili soggettive che sarebbero state presenti se avessi fatto un raffronto (autenticità vs. inautenticità) tra due persone diverse.

Per i fini di questo lavoro i “dati” anamnestici e la maggior parte dei contenuti emersi in questa lunga analisi, non saranno esplicitati. Il focus della narrazione sarà sull’autenticità/inautenticità della relazione, con un particolare accento sul “senso di inautenticità” del terapeuta.

I due incontri con Marina.

Ho conosciuto Marina più di vent’anni fa. Arrivò nel mio studio in un giorno d’autunno che aveva da poco compiuto ventiquattro anni.

Per mesi e mesi mi parlò delle sue angosce sottese al rapporto con l’altro ses­so. Storie d’incontri e abbandoni, di colpi di fulmine e di coup de théatre, di ferite nell’anima e di anime ferite.

Non riuscimmo a comprenderci. Non ci incontravamo mai, anche se in realtà ci incontravamo sempre e costantemente per due volte ogni settimana.

Sarebbe facile dire (e già immagino che qualche collega lo stia pensando…): “Ripeteva con il suo terapeuta le dinamiche che metteva in atto con l’altro sesso”. Tutto vero, indubbiamente.

Ma quante volte le nostre chiavi interpretative servono a chiudere anziché ad aprire!

E poi smettiamola di incolpare sempre i pazienti! Magari cercando alibi nella responsabilità individuale, per cui ciò che fanno è comunque parte del loro essere responsabili di se stessi. Oppure discettando di “reazioni terapeutiche negative”, che chissà perché sono sempre a carico dei pazienti e che ci forniscono una scusa amman­tata di “scientificità”.

Così quando si discute di un paziente che ha deciso di interrompere il suo percorso terapeutico unilateralmente si dirà che: “Dobbiamo rispettare la sua scelta, congratularci di quanto di positivo porterà con sé, perché in quel momento poteva­mo arrivare solo fino a quel punto…” (collega anonimo). Tutto vero per certi aspetti, ma per “certi” non vuol dire necessariamente per tutti. E poi…che modo elegante, buonista e politically correct, per rimanere in superficie. Proprio noi “specialisti” della psicologia del profondo! Dimenticando di chiederci “anche” cosa non ha funzionato. In noi, in lui o lei e soprattutto in noi.

Proprio partendo da queste ultime considerazioni dirò che innegabilmente con Marina non mi sentivo mai “comodo” sulla mia poltrona. Che fuor di metafora vuol dire non sentirsi a proprio agio, anche nel senso tante volte richiamato in questo mio scritto di “esserci”, di sentirsi connessi (oggi si dice così no?) con noi stessi. Questa disconnessione, mi faceva vivere la mia presenza come inautentica, il che si alternava con l’addebitare la stessa cosa a lei.

Lei stava sul lettino e parlava, parlava, parlava. Mentre io ascoltavo, ascoltavo e ascoltavo. Facevo il terapeuta che ascolta con neutralità, anonimato e astinenza (altro

che self disclosure!), ma allo stesso tempo benevolo e accogliente. Facevo tutte queste cose insieme. Che bravo. Il passo immediatamente successivo sarebbe stato la santità. Psicoanalitica ovviamente.6

In realtà, mi si permetta il francesismo, non ascoltavo un cavolo di niente! La scomodità citata prima era nella mia mente. Troppo intrisa di pregiudizi (ovviamente psicoanalitici…ma sempre pre-giudizi erano).

Ipotesi diagnostiche, concetti clinici, tutto era utile per tenermi lontano da un autentico incontro con questa giovane e bellissima donna, che… “ma sono tutte così belle le tue pazienti?” (collega dello studio accanto dixit).

Il rapporto con il padre, gli uomini, l’Edipo, il transfert. Verissimo, per carità. Ma anche “tutto sbagliato e tutto da rifare” come diceva il buon Gino Bartali (che non sarà stato uno psicoterapeuta, ma non per questo doveva aver torto). C’era tutto e non c’era niente.

Non c’ero io. Questo è sicuro.

“Ma perché la paziente ti metteva dentro…”, “l’identificazione proiettiva agi­va…”, “il suo transfert intenso e precoce…”. Già li sento (e li sentivo veramente all’epoca) i colleghi. Tutto vero anche in questo caso, ma…ma…ma…mancavo io.

Dovevo difendermi dal suo fascino. Dovevo “resistere, resistere, resistere”. Quanti “dovevo”! Il verbo dovere a volte è l’anticamera dell’inautenticità, il punto è che non ci rendiamo conto di essere già nell’anticamera e pensiamo di essere ancora sulle scale.

Il mio Super-Io psicoanalitico faceva sì che sentissi persino un po’ d’irritazione quando si presentava più carina del solito. Per non parlare di quella volta del: “Ma come le sta bene quella camicia dottore!”.7

La mia paura di provare sentimenti troppo intensi verso Marina, come se potes­si perdermi (e perderci?) in “chissà chi” e “chissà cosa”, comportava che stessi molto in silenzio e soprattutto che facessi interpretazioni quasi sempre legate al contenuto e al “là e allora”. Sì, l’analisi continuava. “Finché c’è setting c’è speranza”, mi dico a volte. Ma fino a quando?

Fino al giorno in cui di punto in bianco (?!) Marina mi disse: “Ho deciso che non vengo più”.

I giorni successivi furono caratterizzati da un fortissimo travaglio interiore. Ciò che maggiormente mi faceva riflettere era questa sensazione di mancanza. Questa sì

6 Battute a parte, Bromberg, nel suo testo già citato (1998), sostiene questo: “Un paziente non ha bisogno di un santo come analista, ha bisogno di autenticità”.

7 Come scrive Cremerius (1988): “E’ facile che tali corazze che il Super-Io esige subiscano il destino comune a tutti gli atteggiamenti del Super-Io. Il debole Io, tra Es e Super-Io, non è in grado di impedire repentine irruzioni della pulsione”. E più avanti: “Il Super-Io rigido scatena angoscia e induce a una illibertà infantile” [il corsivo è mio]. In questo scritto Cremerius si riferisce agli analisti e alla loro formazione istituzionale, criticando l’istituto dell’analisi didattica e la rigidità e il dogmatismo con cui sono insegnati agli allievi alcuni principi, in primis quello di astinenza. Avere una relazione analitica autentica, ritenendo al contempo di potersi chiamare fuori dalle vicissitudini del proprio controtransfert, “è come pensare di lavarsi senza bagnarsi” (Cremerius, 1995).

autentica. Un vuoto. Mi mancava Marina. Forse come nella celebre canzone omo­nima….. “ti voglio al più presto sposar…”? No. Bastava molto meno. Tutte le mie emozioni trattenute, esiliate, negate, dimostravano la loro presenza. Proprio quella presenza e senso di autenticità che mi erano mancate spesso in questa terapia. Sof­focate, annientate, dalle mie resistenze all’incontro con lei. Novello Jung di fronte a Sabina Spielrein e per di più senza l’aiuto di Freud.

Eppure un incontro con l’Altro che sia autentico è un incontro tra Persone in “carne ed ossa”. Tra corpi. Tra anime. Che si realizza quando riusciamo ad ascoltare chi sta di fronte a noi anche con i nostri occhi e a vederlo con le nostre orecchie (quelle che Foucault diceva che nel nostro lavoro “affittiamo”). Perché tutto diventa transmodale.

Non ci sono barriere (dentro di noi) che non permettano all’altro di entrare. A volte il passaggio (ah! I varchi…) può avvenire solo attraverso feritoie. E feritoia deriva etimologicamente da ferita. E la nostra autenticità nell’incontro deve fare i conti anche con le ferite, vecchie e nuove, che questo stesso incontro riapre o crea ex novo. La mia inautenticità nell’incontro con Marina era il risultato delle mie difese da un rapporto vero perché autentico e autentico perché vero. Siamo quindi in un contesto dinamico. Di forze in conflitto. Di parti del Sé che attivano rappresentazioni ed emozioni contrastanti, nonché rappresentazioni del Sé, dell’Altro e della relazione Sé-Altro che entrano in rotta di collisione.

Dove mi avrebbero condotto il mio essere autentico, il mio assetto mentale-emotivo di apertura, d’accoglienza dell’Altro e la mia funzione di reverie? Appunto…dove? “Basta la parola”, diceva una vecchia pubblicità. Una sola parola: dove. Ma le parole per dirlo mancano spesso.

La paura di “perdere il ruolo”, di lasciarmi andare ad un atteggiamento ami­chevole, confidenziale, seduttivo, agito (era proprio questa progressione di aggettivi che mi spaventava). Il terrore di vedere in lei solo la donna e non la paziente. Di­menticando che non si tratta nel nostro lavoro di “o questo o quello”, ma di porsi in relazione, potenzialmente e nel nostro assetto mentale, con tutti i livelli di rapporto contemporaneamente presenti, senza scotomizzarne alcuno.

Un’altra riflessione, che qui riporto perché può andare al di là della testimonian­za e aprire a riflessioni sul nostro mestiere di terapeuti, è legata all’essermi accorto all’epoca di quanto stessi perdendo quella spontaneità, sicuramente anche un po’ naif, che aveva il pregio di far da motore alla mia motivazione ad incontrare l’Altro. Mi riferisco ai primissimi anni della professione8. Rischiavo di perdere il mio essere in contatto con un me stesso riconosciuto come tale, e attore responsabile delle sue azioni.

Se lo spontaneismo non può che fare disastri, lo stesso vale per il tecnicismo, la tecnica elevata a Tecnocrazia.

8 Rimando per un approfondimento della questione in oggetto al pensiero di P.F. Galli (1961) sulla formazione dei terapeuti e sulle fasi che essa attraversa.

Per farla breve: i miei timori di non riuscire a “stare nel ruolo” con questa pazien­te così affascinante, utilizzavano tutto l’armamentario psicoanalitico per legittimarsi. Legittimo, però, rimanda al registro della Legge, non è sinonimo di autenticità.

Dopo dieci anni, Marina ricomparve. Non so cosa avesse pensato prima di que­sto nostro nuovo colloquio. Per quanto attiene a chi scrive, mi rimbalzava nella mente la frase di Bion: “Il primo incontro tra paziente e analista è l’incontro tra due persone che hanno paura”. Sì è vero non era il primo, ma era come se lo fosse.

Cosa mi avrebbe detto? Cosa ci saremmo detti?

Era passata molta acqua sotto i ponti da dieci anni prima. E non solo per lei. Il fiume della vita era sempre lo stesso, ma si sa l’acqua cambia, scorre, non è mai la stessa.

Chissà quanti aspetti della sua vita personale e della mia vita sia personale sia professionale ci avevano fatto cambiare. Qualcuno lo conoscevo, altri mi sono stati più chiari successivamente. Non è questa la sede per parlare di aspetti biografici, con la “scusa” di parlare di una situazione clinica.

Entrambi, per motivi diversi, ci eravamo sottoposti ad un duplice test: verso l’al­tro e verso noi stessi. Lei “doveva” essere la “mangia uomini” di sempre ed io “dovevo” essere “lo psicoanalista in grigio” (Meltzer), che chiude se stesso a chiave da qualche parte prima che giunga l’ora della seduta con Marina.

Questi ruoli intrapsichici erano funzionali ad un’interazione con l’altro che li confermasse o meno, e il destino di questo tipo di relazione aveva un effetto a sua vol­ta sulla percezione di sé. Qui è implicita tutta la tematica della componente esperien­ziale in psicoterapia e, in particolare, il sottoporre, da parte del paziente, il terapeuta a dei “test” che confermino o meno (sul piano inconscio) le sue attese di relazione con l’Altro.

Marina aveva interrotto la prima tranche della nostra analisi perché aveva avuto, ahimè, la conferma ai suoi test, cioè che delle due l’una: o l’uomo era interessato a lei solo sul piano sessuale, con una relazione d’oggetto parziale, oppure (come nel nostro caso) si allontanava, si celava, non la riconosceva come Soggetto.

Quindi il vero momento di snodo potremmo dire che sia stato nel periodo d’interruzione del nostro rapporto. E’ stata l’assenza dell’Altro che ha fatto riflettere ambedue sulla portata del desiderio negato, del desiderio che spaventa, del desiderio di una relazione che sentiamo come autentica.

L’assenza ha prodotto l’emergere chiaro e inconfutabile del desiderio. Così come ha prodotto una domanda di senso che prima era soffocata sul nascere.

Devo rimarcare che in questa seconda analisi, terminata circa due anni fa, ho scoperto che l’autenticità è anche una questione di volontà. Non la volontà del “devo”, delle imposizioni esterne, superegoiche o interiorizzate. Non la volontà della Tecnica, del “dogma” psicoanalitico e quant’altro, così funzionali per andare a braccetto con le nostre paure e le nostre resistenze a mettersi in gioco. E neppure quella dell’Etica impersonale, che misconosce il Soggetto.

L’esserci, autenticamente, con l’Altro, non è qualcosa che ha solo a che fare con la spontaneità (uno dei sinonimi di autenticità). Ci deve essere anche una “volontà di autenticità”. Quindi una scelta. Perché decidere vuol dire assumersi una responsabi­lità. E’ questa l’Etica della responsabilità di cui parla Weber (1919). Quella che ci fa interrogare anche sulle conseguenze delle nostre azioni e non solo sulla buona fede o malafede. Dunque, dobbiamo volerla questa qualità del legame.

Parlammo anche di questo, nella nostra “seconda puntata”.

Anche Marina aveva fatto riflessioni simili. Riflessioni che forse poteva fare solo in mia assenza. Senza la “pressione” del rapporto in atto.

Unitamente alle ulteriori riflessioni sulle sue relazioni di partnership, Marina, nei dieci anni d’interruzione del nostro lavoro, si era addebitata completamente l’in­successo. Aveva compreso che era riuscita a “fare fuori” (così diceva) l’ennesimo uomo della sua vita. Ed io che mi attribuivo tutte le colpe! Avevo di fronte un “killer emo­tivo” e non lo sapevo?

Ma “qualcosa” del nostro lavoro, del nostro tempo trascorso insieme, l’aveva fat­ta riflettere. “Quello” che aveva fatto fuori era anche colui che aveva scelto, in piena autonomia, per “ricevere un aiuto a ritrovare una me stessa che sento che c’è, ma non so dove” (erano state le sue prime parole nel primo colloquio). Era riemersa quella parte, sempre presente nella decisione di iniziare un percorso psicoterapeutico, che “vorrebbe” che l’incontro con l’altro da sé si distinguesse dalle esperienze passate, non il solito copione, ma un incontro nuovo, produttore di senso e autentico. Ed è quella parte che confligge con l’altra, altrettanto presente, che si aspetta che (“anche questa volta dottore….”) nulla cambi.

Entrambi dovevamo attraversare l’esperienza dell’insuccesso, del lutto, del di­stacco improvviso per poi ricominciare insieme. Un “nuovo inizio”, come dice Balint. Dovevamo attraversare l’esperienza dell’inautentico per scoprire (con il cuore e con la testa) l’esistenza di un’altra possibilità. Dovevamo voler gettare le “maschere” per ritrovare l’Anima (uso ambedue i termini nel senso junghiano).

Ricordo che alla fine del nostro lavoro mi trovai a dirmi “era così facile”.

Ci voleva così “poco” per incontrarsi veramente. O no?

Questo percorso terapeutico con la mia paziente è stato per il sottoscritto d’im­portanza fondamentale anche per rubricare l’autenticità nell’incontro con l’Altro (che in questo lavoro ho apparentato ad un fenomeno appartenente all’Estetica) nel novero di quei fenomeni della nostra vita che non accadono per caso. Non ci sono “autentici per caso”. Così come non è mai per caso che un’opera d’arte si “incontra” con noi, e noi con essa.

Estetica, deriva dal greco “aisthesis”, che indica ciò che otteniamo attraverso i nostri sensi. Però i nostri sensi, le nostre percezioni, i famosi (e abusati termino­logicamente) “vissuti”, non sono delle variabili indipendenti. Nascono e procedono insieme con tutte quelle nostre componenti culturali, cognitive, fisiche e biografiche che concorrono al nostro essere Soggetti.

Baumgarten (1735), che fu il primo a usare il termine di Estetica in ambito fi­losofico, la riteneva “sorella della Logica”. In tempi più recenti pensatori come Benja­min, Adorno e Marcuse (vedi ad esempio per quest’ultimo: Marcuse, 1978) le hanno conferito uno status di guida per l’umanità verso l’emancipazione dall’alienazione.

E’ in questo senso che l’autenticità diventa “fatto” estetico.

E se il suo significato, l’esperienza che lo accompagna, e il suo accadere agiscono nel campo dell’Estetica, tutto questo ha bisogno secondo me di avere alle spalle una scelta etica. Una volontà etica. Se teniamo conto anche di questo abbiamo un motivo in più per dire: “Ma che bella seduta!”.

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