Le figure del dissenso e della compiacenza - Varchi n. 8
di Francesco Pivetta
Perché si è dissidenti? Perché si è compiacenti? Perché il ‘potere’, che è sempre il punto di riferimento di queste manifestazioni di opposizione o di adesione, è così dividente o attraente?
Talvolta la dissidenza è dovuta alla capacità o incapacità di assolvere ai ruoli che si è chiamati a compiere. Si può essere dissidenti per rabbia, invidia, superbia ma anche quando si è desiderosi di affermare il proprio punto di vista, la propria dignità di pensiero, indipendentemente dal castigo che può toccare in sorte.
E si può essere compiacenti per viltà, opportunismo, fragilità ma anche per sentimenti, legami, amicizia, capacità di perdono di atti umani che si comprendono anche se non si condividono.
Il potere, invece, comunque si posizioni chi aderisce o differisce dal suo disegno, ha la capacità di restare immobile e di manifestarsi come ‘dominio’ esercitato col castigo, implicito nella sua violenza.
La vicenda è molto antica. Va al di là del conflitto generatore della Storia e dei cambiamenti. Va al di là della semplice sudditanza irrazionale.
La storia è incominciata tanto tempo fa e nei piani alti del potere, alle origini della nostra cultura occidentale.
Le mitologie della ribellione
Nessuno sa esattamente per quali motivi Lucifero si sia ribellato a Dio. La superbia con cui viene stigmatizzata la sua ribellione appartiene al lessico di Dio, non certo a quella del suo oppositore. Da quel giorno si chiamò Satana (parola ebraica) e Diavolo (parola greca): ovverossia ‘contradditore’, ‘oppositore’, ‘colui che mette ostacoli per traverso’.
L’angelo della luce, che esercita l’arte del dubbio, ormai ridotto a strisciante rettile, proponendo di gustare del frutto della conoscenza proibito da Dio, sibila all’orecchio di Eva: “No voi non morrete; anzi Iddio sa che qualora ne mangiaste si aprirebbero gli occhi vostri e diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male” (Genesi,2, 4-5).
Fu l’inizio dell’avventura umana, inaugurata da una donna.
Nell’ordine mitologico greco, invece, fu Prometeo il grande dissidente, fino in fondo cosciente della propria ribellione al padre degli dei. Aveva aiutato Zeus a sconfiggere i Titani, ma lo aveva anche irriso aiutando gli uomini a soffrire di meno.
Efesto, che controvoglia ma obbediente agli ordini olimpici lo sta incatenando alla montagna, è consapevole dei comportamenti di chi ha il bastone del comando:
“il cuore di Zeus è implacabile, perché sempre feroce è chiunque abbia da poco ottenuto il potere” (Eschilo, Prometeo incatenato, prologo).
E Prometeo (il pre-vidente), il ladro di fuoco, pur nella sofferenza si vanta:
“Ho liberato i mortali dall’aver sempre davanti agli occhi la morte” (Eschilo, Prometeo incatenato, primo episodio).
Regalo non da poco, a quanto pare.
Yes-man o no-man?
Ma che cosa si intende, al di là dell’atto ribelle o dell’assoluta sottomissione, per dissidenza e per compiacenza?
Con dissidente si fa riferimento allo storico russo Roy Medvedev che usa questo termine per indicare “non solo colui che la pensa in maniera diversa, bensì colui che esprime esplicitamente il suo dissenso e lo rende evidente ai suoi concittadini e allo Stato”.
La fortuna di questa definizione si è imposta all’opinione pubblica negli anni ’70 e ’80 in seguito ai fenomeni di opposizione ai regimi dell’Europa orientale, che in seguito portarono alla caduta del muro di Berlino.
Il dissenso nei cosiddetti paesi comunisti piacque tantissimo all’Occidente che lo sosteneva apertamente. La democrazia, ritenendo d’aver raggiunto un alto livello di benessere, aveva tutto l’interesse non solo a garantire la libera espressione del dissenso, ma addirittura ad incoraggiarla.
Non a caso il Parlamento europeo istituì nel 1988 il premio Sacharov, dedicato al dissidente sovietico, per premiare le persone e le organizzazioni distintesi per la difesa dei diritti umani e delle libertà individuali: da Mandela a San Suu Kyi, dalle madri di Plaza de Mayo a Jafar Panahi.
La visione di una cultura più evoluta e democratica probabilmente è servita a dare gli ultimi colpi di piccone alle società filosovietiche che manifestavano la loro adesione al regime con maggioranze bulgare compiacenti, ma non durò molto.
Ammainate le bandiere rosse dalle cupole del Cremlino, la democrazia ha dimostrato che il proprio lato oscuro può essere esercitato in maniera più subdola e sottile, completando in qualche modo la profezia di Karl Jaspers che, all’indomani del secondo conflitto mondiale, metteva in guardia i vincitori, ricordando che quanto era accaduto nel ventennio precedente non era stato nient’altro che una rozza e barbara palestra di ciò che sarebbe accaduto, in modo più sottile e raffinato, sessant’anni dopo, cioè oggi.
In fondo dissentire vuol dire anche, letteralmente, ‘sedersi a parte’, allontanarsi, anche da chi si presenta come democratico.
Il dissidente è colui che avendo un’appartenenza pensa con la sua testa e rischia l’esclusione. Oggi si usa il silenzio, il dileggio, il sopracciglio ironicamente sollevato per ‘oscurare’ l’opinione di chi ci dispiace. Il dissidente resta tale nel momento e nel modo in cui il potere lo considera tale.
La democrazia non ritiene di avere al proprio interno forme di dissidenza, preferisce parlare di opposizione: divora casomai il dissidente ritenendolo superfluo nel suo sistema, già aperto alla presunta tolleranza di tutte le posizioni.
I dissidenti russi finivano nei gulag o in manicomio. In democrazia, invece, mette in guardia Sciascia “Quelli che la pensano come noi sono quelli che non la pensano come noi”. Sciascia rilanciava il sasso aldilà della cordicella per indicare l’attenzione necessaria, in democrazia, soprattutto a chi, in modo compiacente, cerca a tutti i costi l’adesione. Nasceva allora l’era degli yes-man, annidati soprattutto a Wall Street, con cui abbiamo dovuto fare i conti fino all’odierna crisi finanziaria ed economica mondiale.
Attenzione, però, il dispotismo è sempre a portata di mano e di voce, spesso figlio della stessa democrazia, come lo fu Hitler nelle libere elezioni del 1933. In Ungheria l’Accademia delle belle arti ha proposto, il 30 gennaio 2013, di togliere la cittadinanza agli artisti che non si allineano all’identità nazionale rappresentata dal primo ministro Viktor Orbàn. Dal 2011 la nuova costituzione ungherese dà poteri dittatoriali all’esecutivo che controlla i media. Nelle scuole sono obbligatori testi antisemiti mentre i Rom sono costretti ai lavori forzati. Eppure l’Ungheria fa parte dell’Unione europea. La ‘moral-suasion’della democrazia europea ha la schiena dritta?
Per compiacente il Dizionario Zanichelli indica ‘colui che aiuta volentieri, disponibile’ ma anche colui ‘che si presta ad aiutare per scopi illegali’ e ancora chi fa ‘qualcosa per accontentare o rendere felice qualcuno’. Solo per ultimo il compiacente è sinonimo di colui che si congratula con qualcun altro.
Si tratta di sudditanza, forse di incapacità critica, non sempre di cortesia.
Su La repubblica del 3/11/12, Gustavo Zagrebelskj denunciava l’era della compiacenza, sottolineando gli inganni della cultura al servizio dei potenti.
Il tema è antico ma merita di essere ricordato:
“La nostra epoca – ricorda Zagrebelsky - è sempre più ricca di consiglieri e consulenti e sempre meno d’intellettuali (...). Il consigliere di oggi vive tra ministeri, enti, istituti, fondazioni, aziende, e si lega al piccolo o grande potente, offrendo i suoi servigi intellettuali e ottenendo in cambio protezione e favori. (...) L’uomo di cultura diventa allora uomo di compiacenza, sebbene spesso voglia illudere se stesso d’essere lui a usare il potente mezzo per realizzare le proprie idee, mentre è sempre il contrario: sono le sue idee a essere usate come mezzo per gli interessi del potente”.
Allora l’asservimento al ‘dominus’ di turno non è solo tipico degli antichi regimi totalitari, visto che la democrazia contemporanea continua a nutrirsi di compiacenze intellettuali.
Almeno Dante Alighieri esaltava Farinata, un eretico (la dissidenza dell’epoca), ammirandone la dignità nonostante il castigo eterno:
“ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno in gran dispitto” (Inferno, canto X, vv.35-36).
mentre condannava il compiacente e lusinghiero Alessandro Interminelli alla lordura:
“vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parea s’era laico o cherco.” (Inferno, canto XVIII, vv.116-117).
Il poeta, non c’è dubbio, nel suo viaggio di ricerca e di coscienza ha la netta preferenza per un altro grande ribelle che difese, a costo di suicidarsi, la propria dissidenza politica: Catone l’Uticense a cui Dante vorrebbe somigliare:
“libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.” (Purgatorio, canto I, vv. 71-72).
Ribelli, resistenti, riformatori o fondatori di nuovi diritti?
Antigone, che ha sepolto contro la volontà di Creonte il corpo del fratello morto Polinice, è senz’altro il primo e luminoso esempio della dissidenza che si fa Diritto.
Sofocle illustra in questa tragedia l'eterno conflitto con il dispotismo, anche se contro la legge di Creonte Antigone oppone il diritto naturale delle genti. Il punto di forza del ragionamento di Antigone si fonda sul sostenere che un decreto umano (il nomos) non può porsi al di sopra dell’umano e del divino.
Viene spontaneo chiedersi: se Antigone è l’archetipo, perché non dovrebbe esserlo altrettanto Rosa Parks, sarta afroamericana che il 1° dicembre del 1955, tornando a casa in autobus, poiché l'unico posto a sedere libero era nella parte anteriore del mezzo, quella riservata ai bianchi, andò a sedersi lì?
Nonostante gli ordini del conducente e dei passeggeri bianchi, Rosa, stanca di essere trattata come una cittadina di seconda classe (per giunta costretta anche a stare in piedi), rimase al suo posto. Il conducente fermò così l'automezzo, e chiamò due poliziotti per risolvere la questione: Rosa Parks fu arrestata e incarcerata per condotta impropria e per aver violato le norme cittadine.
Da quel rifiuto partì il movimento afroamericano per i diritti civili.
Tre processi su cui meditare
Se l’antica Tebe mostrava il suo volto dispotico, la democratica Atene non sempre accoglieva il dibattito tra idee diverse, immagine cara alla mitologia della polis greca coltivata da molti studiosi. I casi di Anassagora e di Socrate vanno attentamente meditati, soprattutto per le contemporanee analogie a cui inevitabilmente rimandano. Qualcuno riesce a rintracciarle? In fondo sono trasparenti.
L’autorità di Pericle in Atene era immensa, ma fondata sul consenso dei cittadini, i quali, sotto il suo governo, godettero delle libertà democratiche in misura altrove sconosciuta. Questo consenso poteva venir meno in qualsiasi momento e doveva essere ogni volta riconquistato. Nel 432 a.C. Pericle attraversò un momento difficile e i suoi amici subirono attacchi di ogni genere. Alcuni di loro (tra cui Anassagora) furono accusati tra l’altro di empietà e ateismo.
Nei confronti di Anassagora l’accusa si fondava sul fatto che, invece di riconoscere la natura divina degli astri, li studiava come banali fenomeni fisici: aveva formulato una teoria delle eclissi e sosteneva pubblicamente che il Sole era un sasso infuocato e che la Luna, da quello che si poteva vedere, appariva così simile alla Terra, con valli e montagne, da far supporre che fosse anche abitata. In tutto questo non c’era molto di nuovo.
La novità era che qualcuno potesse essere processato per questo. A differenza di altre religioni, infatti, quella greca non possedeva veri e propri dogmi, cioè verità che non possono essere messe in discussione, e i suoi sacerdoti accettavano (almeno fino a un certo punto) il confronto con altre forme di sapere. I sacerdoti greci, poi, non formavano una struttura organizzata stabilmente, né tanto meno una casta separata dal resto della società: per lo più erano privati cittadini che venivano eletti come altri magistrati civili e le loro funzioni erano temporanee. Quelli che proposero e fecero approvare il decreto che assimilava ateismo e astronomia e puniva entrambi come reati appartenevano come Pericle al partito democratico, ma erano suoi avversari, in quanto esponenti dell’ala estrema del partito.
Non c’è da stupirsi troppo che proprio da loro partisse una tale iniziativa, né che vicende del genere si siano ripetute più volte nella città che era la patria della democrazia greca.
La democrazia - e cioè il governo del popolo - è sicuramente il migliore dei sistemi politici sperimentati dall’uomo, ma non è detto che la maggioranza del popolo sia sempre costituita da persone di buon senso, né è possibile evitare che demagoghi senza scrupoli sfruttino a proprio beneficio il fanatismo e l’intolleranza degli stupidi.
Socrate faceva pubblica professione di ignoranza: “questo solo so di sapere -diceva-: che non so niente”. Nello stesso tempo però sosteneva di essere più sapiente di tutti i cosiddetti sapienti, perché questi, di cui aveva lungamente messo alla prova le conoscenze, credevano di sapere tutto e non sapevano nulla, mentre lui non sapeva nulla, ma almeno sapeva di non sapere. L’ignoranza ostentata da Socrate era insomma una provocazione diretta contro quanti, presumendo di conoscere la verità, la insegnavano, la predicavano, e ne facevano, per così dire, commercio: sacerdoti, maghi, indovini e cattivi maestri d’ogni sorta, compresi naturalmente molti uomini politici. Fingendo di voler essere istruito da loro, Socrate li induceva ad esibire la propria “mercanzia” e così aveva agio di dimostrare, al termine di assillanti interrogatori, che si trattava solo di volgare paccottiglia.
Già questo atteggiamento di Socrate, mentre entusiasmava i giovani per quello che aveva di dissacrante, doveva riuscire assai indisponente per chi ne rimaneva vittima. Ma la cosa forse più irritante in lui era la pretesa di demolire verità comunemente e pacificamente accettate, senza avere alcuna nuova verità da proporre al posto delle vecchie.
I benpensanti di tutte le epoche sono intellettualmente troppo pigri per rinunciare a certezze precostituite e per cercare da soli la verità. Socrate urtava la suscettibilità dei benpensanti del suo tempo, non tanto perché confutava le loro antiche credenze (anche molti sofisti lo facevano, ed erano per lo più non solo tollerati, ma onorati per la loro abilità dialettica), quanto perché non aveva una sua verità da esibire e da “vendere”. La sua filosofica ignoranza era ciò che lo rendeva irriducibilmente diverso dagli altri e perciò, anche, potenzialmente pericoloso.
Socrate fu condannato a morte sotto l’accusa di corrompere i giovani insegnando loro cose contrarie alla religione dello Stato. Si dice di solito che tale accusa era infondata, che Socrate probabilmente credeva negli Dei e che, in ogni caso, era troppo rispettoso delle leggi dello Stato, per non rispettare anche le credenze e i culti che queste leggi imponevano agli Ateniesi. Può darsi che sia vero. Di sicuro gli accusatori di Socrate sbagliavano quando (forse per malafede, ma più probabilmente per stupidità) attribuivano a Socrate le dottrine di Anassagora sulla costituzione dei corpi celesti, verso le quali Socrate aveva sempre dimostrato il più assoluto disinteresse.
Ciò non toglie, però, che gli accusatori di Socrate, coscienziosi paladini della religione e della morale, avevano capito la cosa essenziale: e cioè che una filosofia come quella di Socrate – un costante esame della propria coscienza, un dialogo continuo con gli altri, la revisione incessante delle certezze raggiunte - era incompatibile con qualsiasi “verità” ufficiale, non importa se di natura religiosa, morale o politica.
Come racconta Platone nell’Apologia di Socrate, Socrate si difese in modo ammirevole durante il processo: rivendicò i propri meriti di pensatore e di uomo onesto, mostrò la povertà morale e intellettuale dei suoi detrattori, sfidò l’assemblea che doveva giudicarlo ad assumersi la responsabilità di mandarlo a morte. Probabilmente il processo si sarebbe concluso senza alcuna condanna, o con una condanna assai meno severa, se soltanto Socrate si fosse mostrato più conciliante: quel che gli avversari volevano era la sua umiliazione, non la sua morte. Ma Socrate parlò con disprezzo di quanti, imputati di fronte all’assemblea, tentavano di commuoverla con pianti e preghiere, e lasciò intendere che un tribunale che anziché dispensare giustizia pretendeva di concedere grazia tradiva la sua funzione. Infine proclamò la volontà di continuare a fare quel che aveva sempre fatto, e che – diceva - gli era ordinato da quel Dio (o demone, come preferiva chiamarlo) a cui non aveva mai disobbedito: la sua coscienza. Con ciò lasciava intendere che anche la democrazia ha i suoi limiti e che le questioni di coscienza non si possono rimettere al voto di un’assemblea.
Socrate fu riconosciuto colpevole.
Mentre Socrate attendeva in carcere l’esecuzione della sentenza, gli amici - come racconta Platone nel Critone - trovarono il modo di farlo fuggire. Ma quando tutto sembrava pronto, Socrate rifiutò di lasciare il carcere. Fuggire voleva dire violare le leggi di Atene sotto le quali aveva liberamente scelto di vivere, e cioè comportarsi in modo incoerente e opportunistico, come si vantava di non aver mai fatto. Fuggire avrebbe anche significato piegarsi a quei compromessi che già durante il processo gli erano stati offerti, e che aveva sdegnosamente respinto per inchiodare i suoi concittadini alle responsabilità che si erano assunti processandolo:
“E così, - aveva detto allora - io me ne vado a pagare il mio debito di morte, condannato da voi; e i miei accusatori se ne andranno a pagare il loro debito di iniquità e di infamia, condannati dalla verità. Io mi tengo la mia pena, e quelli si terranno la loro. E forse è bene che la cosa sia andata così; credo che sia la misura giusta per tutti”.
Neppure a Gesù di Nazareth, come tutti sanno, le cose andarono bene. La contestazione che faceva delle leggi mosaiche nella loro interpretazione più restrittiva gli suscitarono le ire dei farisei e più tardi del Sinedrio. Guariva i ciechi di sabato e non mostrava di aderire al formalistico rispetto per le regole alimentari ortodosse.
Ai suoi discepoli, tardi di comprendonio, Gesù spiegò così la sua posizione:
“Non comprendete come tutto quello che entra dal di fuori dell’uomo, con può contaminarlo; perché ciò non gli entra nel cuore, ma nel ventre e se ne va nel cesso? (...) Quello che esce dall’uomo invece è ciò che contamina l’uomo. Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri” (Marco,7, 18-21).
Il suo processo non andò meglio di quello di Socrate, anche se fu segnato in modo diverso da quella del filosofo ateniese. A Pilato che si interrogava sull’affermazione di Gesù che il suo regno non era di questo mondo, il nazareno rispose: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (Giovanni, 18, 37).
Non stupisce che, scetticamente, il romano Pilato gli rispondesse “Che cos’è la verità?” prima di dichiarare pubblicamente che in quell’uomo non trovava nessuna colpa.
In questo caso, solo la vile compiacenza del procuratore di Giudea nei confronti della folla portò alla crocefissione di Gesù.
Nietzsche, nell’Anticristo, commentò: “in fondo c'è stato un solo cristiano al mondo ed è morto sulla croce”.
Eroici furori
Giordano Bruno è il filosofo degli eroici furori, l’eroe del libero pensiero per antonomasia, colui che subisce la propria condanna pur di affermare la fiducia nella capacità umana di pensare senza vincoli alcuni.
“Verrà un giorno che l'uomo si sveglierà dall'oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo (...). L'uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui, in questo mondo”.
Troppo per Santa Romana Chiesa, detentrice della mediazione tra Dio e mondo.
L’8 febbraio 1600, il filosofo nolano, dinnanzi ai cardinali inquisitori, è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: “Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla”.
Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua serrata da una morsa perché non possa parlare, viene condotto in piazza Campo de’ Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo.
Le sue ceneri furono gettate nel Tevere.
Dopo il XX Settembre 1870, data che segna la fine del potere temporale dei papi, attraverso una pubblica raccolta di fondi venne eretta la statua al pensatore proprio nel luogo in cui venne bruciato, a memoria del pensiero laico e quindi libero.
Giordano Bruno rimanda inevitabilmente a Pier Paolo Pasolini, l’intellettuale e poeta ‘corsaro’ che pur non avendo prove ‘sa’ che il potere è colpevole e corrotto.
Per lui la scomparsa delle lucciole fu la grande prova che lo sviluppo economico e morale perseguito dai dirigenti dell’epoca (la Democrazia Cristiana degli anni ’70) aveva stravolto il paese falsificandone i valori.
La sera prima di essere ucciso, Pasolini rilasciò a Furio Colombo un’intervista, che venne pubblicata su La Stampa l’8 novembre 1975.
Difendeva la figura dell’intellettuale libero, che pensa con la sua testa, capace del gran rifiuto:
“Il rifiuto è sempre stato un gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali. I pochi che hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non piccolo, totale, non su questo o quel punto, ‘assurdo’, non di buon senso. Eichmann, caro mio, aveva una quantità di buon senso. Che cosa gli è mancato? Gli è mancato di dire no su, in cima, al principio, quando quel che faceva era solo ordinaria amministrazione, burocrazia. Magari avrà anche detto agli amici, a me quell’Himmler non mi piace mica tanto. Avrà mormorato, come si mormora nelle case editrici, nei giornali, nel sottogoverno e alla televisione. Oppure si sarà anche ribellato perché questo o quel treno si fermava, una volta al giorno per i bisogni e il pane e acqua dei deportati quando sarebbero state più funzionali o più economiche due fermate. Ma non ha mai inceppato la macchina (...).
La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra. E noi, gli intellettuali, prendiamo l’orario ferroviario dell’anno scorso, o di dieci anni prima e poi diciamo: ma strano, ma questi due treni non passano di li, e come mai sono andati a fracassarsi in quel modo? O il macchinista è impazzito o è un criminale isolato o c’è un complotto. Soprattutto il complotto ci fa delirare. Ci libera da tutto il peso di confrontarci da soli con la verità (...).
Ma cosa c’è sotto? Qui manca il chirurgo che ha il coraggio di esaminare il tessuto e di dire: signori, questo è cancro, non è un fatterello benigno. Cos’è il cancro? È una cosa che cambia tutte le cellule, che le fa crescere tutte in modo pazzesco, fuori da qualsiasi logica precedente. È un nostalgico il malato che sogna la salute che aveva prima, anche se prima era uno stupido e un disgraziato? Prima del cancro, dico. Ecco, prima di tutto bisognerà fare qualche sforzo per avere la stessa immagine. Io ascolto i politici con le loro formulette, tutti i politici, e divento pazzo. Non sanno di che Paese stanno parlando, sono lontani come la Luna.”
La scienza tra etica e verità: lo strano caso di Galileo Galilei
“Eppur si muove”. Così la tradizione ricorda le parole mormorate dallo scienziato pisano dopo la ritrattazione forzata delle sue teorie.
Galilei è finito per diventare un’icona dello scienziato dubbioso, che rigetta le proprie scoperte scientifiche pur di non sottoporsi alle tenaglie del torturatore.
Dissidente fino in fondo con le teorie geocentriche dell’epoca, non sapeva resistere alla forza dell’esperienza scientifica. Col suo cannocchiale aveva esplorato il sistema solare, scoperto che le macchie lunari erano crateri e pianure, visto ruotare i pianeti medicei attorno a Giove, contemplato per primo al mondo gli anelli di Saturno.
Sapeva ed aveva visto, osservato e dimostrato. Ma la paura della morte fu più forte. Non raggiungerà la fama eroica di Giordano Bruno, ma la scienza, ancora oggi, esige menti eroiche, non morali eroiche, come spesso ha dimostrato. Forse in questo sta la sua forza e capacità d’andare avanti. Comprese le sue molte compromissioni col potere politico ed economico. Multinazionali comprese.
Il processo e la condanna di Galilei non fu un episodio increscioso attribuibile all’oscurità dei tempi (che non erano affatto oscuri). La Chiesa ha finito con l’ammettere (con secoli di ritardo) che la Terra gira intorno al Sole, come diceva Galilei; e, proprio come suggeriva Galilei, ha trovato un modo per metter d’accordo questa sua nuova convinzione con le affermazioni contrarie della Sacra Scrittura. Ma alla proposta galileiana di subordinare la teologia alla scienza almeno nelle questioni riguardanti il mondo fisico la Chiesa cattolica ha opposto e continua ad opporre un netto rifiuto. A metà del secolo scorso, quando si era appena riconciliata con il sistema copernicano, ha intrapreso una nuova crociata contro la più importante teoria scientifica dell’epoca, il darwinismo. Nel 1950 Pio XII nell’enciclica Humani Generis ha ribadito che in questa come in ogni altra questione l’ultima parola spetta ai teologi, non agli scienziati:
“Il Magistero della Chiesa - si legge nell’enciclica - non proibisce che, in conformità dell’attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussione da parte dei competenti in tutt’e due i campi la dottrina dell’evoluzione, in quanto essa fa ricerche sull’origine del corpo umano che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime invece siano state immediatamente create da Dio). Però questo deve esser fatto in modo tale che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all’evoluzione, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l’ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede.”
Molti si sono scandalizzati di queste prese di posizione e le hanno accusate, giustamente, di “oscurantismo”. Non si vede perché mai la Chiesa cattolica dovrebbe comportarsi diversamente. È compito delle Chiese stabilire quel che i propri fedeli devono credere o non credere ed è evidente che se i fedeli credessero solo a cose ragionevoli non avrebbero agli occhi della loro Chiesa alcun merito speciale.
Quel che conta è che nessuno sia costretto ad appartenere a una Chiesa e a dimostrarle la propria obbedienza.