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Johannes Cremerius: elogio della psico-dissidenza - Varchi n.8

di Paolo Chiappero

Johannes Cremerius (1918-2002) è stato uno dei maggiori psicoanalisti contemporanei e mi piace ricordarlo, a dieci anni dalla sua scomparsa, anche come uno tra i maggiori diffusori della Psicoanalisi in Italia, nel lasso di tempo che va dagli anni sessanta alla sua scomparsa. Cremerius, nato a Moers nella Germania Nord Occidentale, aveva eletto l’Italia a sua “seconda patria” e l’incontro con il nostro Paese è stato in buona parte una scelta e, per altri aspetti, una necessità.


Infatti, già nel 1939, si era dovuto rifugiare a Pavia (dove studierà filosofia e medicina al Collegio Ghislieri) per non sottostare a una serie d’ingiunzioni della politica nazista, tra cui l’obbligo di iscriversi al partito nazionalsocialista tedesco.
Comincia così la sua storia di dissidente: inizialmente “politico”, ben presto anche “psicoanalitico”.
Prima di poter terminare gli studi universitari sarà arrestato durante la Repubblica di Salò e forzatamente rimpatriato in Germania. Qui riuscirà a terminare il corso di laurea in medicina (laureandosi a Friburgo nel 1944) ma sarà costretto ad andare al fronte, dove si salverà miracolosamente da un naufragio durante la ritirata dell’esercito tedesco.
Nel 1946 è psichiatra. Da subito assume posizioni critiche verso la psichiatria organicista e, attraverso la conoscenza di Victor von Weizsaecker, pioniere della medicina psicosomatica in Germania, si interessa di quest’ultima e si avvicina all’opera freudiana.
Cremerius si sottoporrà a due analisi personali: con Fritz Riemann prima, con Gustav Bally in seguito.
Negli anni ’50 è associato a una delle due Associazioni psicoanalitiche tedesche, la DPV, all’epoca appena riconosciuta dall’IPA (International Psychoanalytic Association). L’altra società era (ed è ancora oggi) la DPG, all’epoca molto criticata per i suoi rapporti con il passato regime nazista.
Ed è proprio lui a essere scelto, come medico-psicoanalista, a far parte del gruppo di medici tedeschi inviati ad aggiornarsi negli USA su mandato del Governo tedesco (all’epoca Repubblica Federale Tedesca).
Qui iniziò un percorso di formazione, testimonianza e nascita di legami professionali e umani d’importanza incomparabile (e che Cremerius spesso ricordava quando si parlava con lui).  Incontrò e collaborò con analisti del calibro di Alexander, Kris e Loewenstein, Menninger, Rapaport, Eissler, Rado, le psicoanaliste Horney e Deutsch, nonchè Searles e Frieda Fromm Reichmann.
Al suo ritorno in Germania organizzò e diresse il Centro Psicosomatico del Policlinico di Medicina a Monaco (all’epoca il secondo, in questa nazione), dove ebbero molta notorietà i suoi studi sul diabete mellito.
Insegnò anche all’Università di Giessen e successivamente di Friburgo, impegnandosi con altri docenti alla trasmissione di un pensiero critico e antiautoritario (avendo come riferimento filosofico e sociologico la Scuola di Francoforte). Allo stesso tempo si occupò del rapporto tra psicoanalisi e classi socioeconomiche svantaggiate e organizzò gruppi di studio e discussione su casi clinici e pubblicazioni (invitando, tra gli altri, psicoanalisti quali Michael Balint e Medard Boss).
Alla fine degli anni ’50, però, cominciarono a prevalere le difficoltà e le delusioni: l’Università, la stessa DPV, l’ambiente medico tedesco, in tutti questi ambiti Cremerius trovò difficoltà legate alle proprie posizioni scientifiche e politiche. “In pratica avevo fatto molte gaffes (…) e cercai la salvezza in una seconda analisi a Zurigo” (dirà in seguito in uno scritto autobiografico, vedi in bibliografia Francesconi 2002). Si tratta dell’analisi con Bally (psicoanalista svizzero e professore di psicoterapia all’Università di Zurigo). Un’analisi “scelta”, poiché la prima era stata un’analisi didattica, che gli confermò i dubbi su questo strumento formativo caratterizzante il training analitico delle Società psicoanalitiche affiliate all’IPA.
Nel 1966 Cremerius, contattato da Pier Francesco Galli, inizia a collaborare con il “Centro di studi di Psicoterapia Clinica” di Piazza Sant’Ambrogio a Milano, fondato dallo stesso Galli.
Intraprenderà così una lunghissima collaborazione con almeno due generazioni di colleghi italiani. Collaborazione, insegnamento, supervisioni che lo vedranno spesso in compagnia del Prof. Gaetano Benedetti, notissimo teorico e terapeuta della patologia schizofrenica, proveniente dal celebre Burghölzli a Zurigo, dove era membro dello staff psichiatrico fin dal 1947.
Benedetti fu un compagno di viaggio di Cremerius, anche letteralmente, se pensiamo alla frequenza con cui si recavano a Milano, e ambedue costituirono una forte leadership didattica e scientifica nel Centro Studi di Psicoterapia di Milano (poi Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica).
Contemporaneamente ai suoi viaggi in Italia, Cremerius continuò un’intensa attività didattica in vari paesi europei (tra cui Spagna, Austria, Svezia e Danimarca) e venne chiamato ad insegnare nuovamente all’Università in Germania (a Friburgo) fino a essere nominato Vicepresidente della DPV (l’Associazione Psicoanalitica Tedesca) nel 1983.
In quegli anni fonda il Circolo Bernfeld (dal nome dello psicoanalista tedesco di origini ebraiche Siegfried Bernfeld, emigrato negli USA per sfuggire al nazismo, particolarmente stimato da Freud), anche con lo scopo di proporre nuove metodologie formative all’interno del training psicoanalitico ufficiale (cioè della DPV e dell’IPA tout court). Cremerius si opporrà in molti suoi scritti e relazioni congressuali all’analisi didattica, alla gerarchizzazione e all’autoreferenzialità della Società psicoanalitica tedesca. Inoltre, analizzerà in modo critico molte dinamiche interne alle associazioni psicoanalitiche in quanto dinamiche di potere.
Nel 1985 Cremerius sceglierà di non partecipare al Congresso Internazionale dell’IPA di Amburgo, per protestare contro un altro dei “tabù” della DPV: l’analisi critica dei rapporti tra nazismo e psicoanalisi. Anche su questo tema si era pronunciato spesso e, proprio a ridosso del Congresso Internazionale, alcune sue prese di posizione in merito erano state criticate da molti e condivise da pochi colleghi. L’anno dopo Cremerius deciderà di abbandonare la partecipazione attiva alla DPV e investirà maggiormente nel suo ruolo di analista, docente e supervisore a Milano, dove diventerà Presidente Onorario dell’Associazione di Studi Psicoanalitici.
Gli scritti di Cremerius trattano una vastissima gamma di argomenti, non solo psicoanalitici. Cultore delle scienze umane, di cui non si è mai stancato di rilevare l’importanza per chi pratica la clinica psicoanalitica, si è occupato anche di letteratura, estetica, storia e sociologia politica.
In ambito psicoanalitico i suoi scritti più importanti sono stati tradotti e pubblicati in Italia. Già negli anni ’70 escono per i tipi di Boringhieri due volumi di cui è il curatore e a cui partecipa con alcuni contributi. Si tratta di Psicoanalisi ed educazione (con scritti di Sigmund e Anna Freud, M. Klein, C. Jung, M. Balint, J. Bowlby e altri) e Nevrosi e genialità, una raccolta di biografie psicoanalitiche (tra cui quelle di Rousseau, Balzac, Hitler e Goethe).
Ma i suoi scritti sulla tecnica e sulla clinica psicoanalitica più noti che troviamo nella nostra lingua sono tre: Seminari di psicoterapia, Il mestiere dell’analista e Limiti e possibilità della tecnica psicoanalitica.
Il primo contiene la trascrizione di una serie di seminari clinici tenuti dallo stesso Cremerius a Milano, ed è stato pubblicato nel 1982. Gli altri due, editi da Boringhieri (nella collana diretta da Pier Francesco Galli) rispettivamente nel 1985 e nel 1991, rappresentano a mio parere un’ottima esposizione del pensiero di questo grande maestro, spaziando dalla teoria della tecnica alla formazione psicoanalitica; dall’esposizione del “modo” di lavorare di Freud attraverso i resoconti dei suoi stessi pazienti alle problematiche legate ai disturbi del Super-Io; dal ruolo della Psicoanalisi nell’Università tedesca a un’analisi critica del pensiero di Kohut, per giungere ad altri contributi particolarmente significativi di cui tratteremo ora brevemente.
Ci riferiamo agli scritti sul pensiero e la tecnica di Ferenczi (uno tra i dissidenti per antonomasia nella storia del movimento psicoanalitico) e allo scritto dall’esplicito titolo L’importanza dei dissidenti per la psicoanalisi (Cremerius 1983), degno di nota anche per ciò che in questa sede vogliamo evidenziare: il ruolo di dissidente e critico dell’establishment psicoanalitico che fu di Johannes Cremerius.
Cremerius si era sempre molto interessato all’opera e alla figura dello psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi. A cominciare dagli aspetti tecnici. Secondo Ferenczi il compito dell’analista era trovare tecniche che rendessero possibile continuare l’analisi anche nei casi più complessi. Lo psicoanalista ungherese, con queste sue posizioni, non faceva altro che collocarsi in quell’ottica espressa da Freud già dal 1918 nel suo scritto Vie della terapia psicoanalitica (cioè il dover adattare la tecnica analitica al paziente e non viceversa).
La dissidenza di Ferenczi, come quella successiva di Cremerius, si è espressa chiarendo, teorizzando e applicando le proprie concezioni sulla tecnica, senza il timore (che ha invece posseduto sempre Freud) di socializzare queste esperienze all’interno della comunità psicoanalitica. Una dissidenza che è anche coerenza: faccio quello che dico e dico ciò che faccio.
Troppo spesso, nei resoconti clinici, troviamo solo generiche affermazioni sull’andamento del processo analitico oppure resoconti dettagliati che rappresentano soltanto situazioni ideali e che sono proposti come paradigmatici di una modalità ottimale di lavoro!
Ferenczi fu apprezzato da Cremerius anche come “critico sociale”. Nel libro di Ferenczi “Elogio della Psicoanalisi. Interventi 1908-1920”, troviamo un’introduzione appassionata di Cremerius.

 

Dissenso o dissidenza?
Per quanto concerne il testo citato sulla dissidenza nel movimento psicoanalitico, possiamo definirlo un tentativo sistematico di porre la questione del pensiero e della prassi “dissidente” in modo organico e con un approccio storiografico.
Molte delle idee di Cremerius in proposito, che possiamo ritrovare in ordine sparso nei suoi innumerevoli articoli e libri, trovano qui una sintesi precisa e una altrettanto fedele ricostruzione storica che arriva agli inizi degli anni ’80.
Così si apre il capitolo: “Chi parla di “dissidente” e di “dissidenza” ha già abbandonato il terreno del pensiero scientifico ed è entrato in quello della fede. (…) Nella scienza, invece di dissidenza, si parla di dissenso, cioè del principio di affrontare i problemi in modo critico, poiché non esiste (non dovrebbe esistere) nessuna posizione di principio stabilita a priori e non soggetta a una possibile indagine critica” (il corsivo è mio).
Quindi: dissenso e non dissidenza. Ma la realtà del movimento psicoanalitico internazionale (e non solo all’interno dell’IPA!) ha qualificato spesso chi non si attiene al “pensiero unico”, o mainstream psicoanalitico, come dissidente. E allora non ci resta che rinnovare l’importanza di queste “voci” dissidenti.
Se in determinate condizioni storiche e in determinati ambienti associativi siamo qualificati come dissidenti (e solo l’esistenza di un Potere può emanare un simile diktat), chi scrive ritiene che allora valga la pena di fare nostra questa etichetta per metterne in rilievo: a) la potenzialità alternativa a forme di pensiero dogmatico; b) il suo ruolo di coscienza critica. Con l’obiettivo di lottare perché, parafrasando Brecht, sia “sventurata la terra che ha bisogno di dissidenti” e sia invece auspicabile che si abbia bisogno di poter esercitare liberamente il dissenso. Mentre quest’ultimo prevede una semplice non condivisione di un pensiero o azione, con il concetto di dissidenza entriamo in un ambito più vasto e collettivo, qualche volta anche organizzato.
Dissidenza propriamente è “sedere separatamente”. Una vera e propria divisione. Che fa della minoranza che dissente un corpo estraneo del sistema, destinato ad essere escluso da esso (o ad autoescludersi).
Le forme di esclusione sono ovviamente molteplici, come accade anche in diversi ambiti (politico, culturale, ecc….): da quelle più violente a quelle più sottili, dall’ostracismo formale alla negazione dell’esistenza stessa di posizioni teoriche e cliniche. A quest’ultimo proposito sono sempre stato sorpreso negativamente dal fatto che, nel movimento psicoanalitico, diversamente dalle altre comunità scientifiche, l’ignoranza di una teoria o di un autore possa essere un titolo di merito!
Anziché essere ammessa con sincerità, o al limite nascosta, come si verifica in ogni disciplina scientifica, ci sono colleghi che si vantano di non conoscere un autore o una teoria, credendo così di dimostrare la propria superiorità anziché la propria mancanza di conoscenze!
Con questo atteggiamento censorio, si dimentica ciò che il filosofo Spinoza aveva sintetizzato con la frase: “L’unico bene che se condiviso aumenta sono le idee”.
E se vogliamo sviluppare questo “bene” sarà vitale avere più ipotesi di ricerca, essere convinti della ricchezza proveniente dal dialogo e dal confronto tra approcci diversi, della necessità di procedere ad una continua verifica e validazione delle nostre teorie e metodi, possedendo, infine, la forma mentis che chi scrive chiama: l’importanza dell’imparare (inteso come continua riflessione critica e ricerca di nuovi stimoli) contrapposto alla “necessità” di dominare.
Ma ritorniamo al “nostro” Cremerius.
Egli, dopo aver messo in risalto come l’accusa di dissidenza si sia spostata dal padre (cioè Freud) verso i figli, dai fratelli verso altri fratelli, auspica che la psicoanalisi possa diventare un giorno una “scienza normale” (una concezione che troveremo anche nel libro antologico di Cremerius Il futuro della psicoanalisi, 2000, che contiene una bella introduzione del collega Giorgio Meneguz).
Qui il riferimento è al pensiero dell’epistemologo statunitense Thomas Kuhn e alle sue fasi di sviluppo del pensiero scientifico. Quello che propugna Cremerius è che la psicoanalisi rifletta su tutto il suo sapere teorico e clinico e che i suoi paradigmi siano “affinati, ampliati e definiti con maggior precisione (…) verificando continuamente le ipotesi e distanziandosene, qualora esse abbiano un effetto condizionante (…) e rendendo palesi le contraddizioni per demolire le sovrastrutture speculative”.
Nel prosieguo del capitolo Cremerius analizzerà i contributi innovativi che riguardano le “pietre miliari” del pensiero psicoanalitico (esistenza di processi inconsci, sessualità e complesso edipico, traslazione e resistenza). E poco oltre ricorderà anche che  “I veri motivi delle interruzioni del dialogo scientifico e degli scismi risiedono in intime e private avversioni e in idiosincrasie di personalità diverse che non riescono a risolversi. A sconfiggere la ragione, in questi casi, sono le ben note e universali passioni umane, come la sete di potere, il desiderio di primeggiare, di non essere sottomessi o subordinati, di superare gli altri o di spodestarli” (il corsivo è mio).
Spesso sono queste le reali motivazioni che portano alla repressione del pensiero e delle prassi non “ufficiali”, con buona pace delle ragioni teoriche, metodologiche e cliniche! D’altro canto non deve stupire che accada tutto ciò in un ambito, il movimento psicoanalitico, che troppo speso vive di dinamiche di potere che poggiano su leadership carismatiche. Questa “carismocrazia”, come preferisco chiamarla, potrebbe essere in parte giustificata in movimenti religiosi o gruppi politici, ma è inammissibile tra chi si occupa di teorie e pratiche che hanno lo scopo di comprendere e aiutare gli esseri umani sul piano esistenziale e della salute psichica.
Il pensiero di Cremerius è sufficientemente realistico per ricordare come i dissidenti di oggi possono essere gli intolleranti di domani. Come si suol dire: “Si nasce incendiari e si muore pompieri”. Per fortuna non è sempre così, ma la storia del movimento psicoanalitico annovera tanti esempi di dissidenti che, a loro volta, assunta una posizione di potere, si sono comportati nello stesso modo all’interno del loro gruppo o associazione verso altri colleghi: con la repressione e l’intolleranza verso i casi di pensiero critico.
D’altro canto abbiamo riprove che dissenso e dissidenza siano fenomeni non sovrapponibili, per quanto con un simile alone semantico. Oggi coesistono “dissensi” in ambito psicoanalitico che non hanno avuto bisogno di trasformarsi in aperta dissidenza perché sono stati tollerati (pensiamo soltanto a Kohut, G.S. Klein e Schafer, o parte dell’attuale “psicoanalisi relazionale” americana, per citare solo qualche esempio degli ultimi trent’anni). Aggiungo che il punto nodale del discorso non debbano essere tanto le singole teorie o prassi, né tantomeno i singoli soggetti, ma l’idea stessa di poter esprimere liberamente un dissenso. Una frase attribuita a Voltaire che mi piace molto, sintetizza bene tutto questo: “Disapprovo quel che dite, ma lotterò fino alla morte perché possiate dirlo”.
Ritornando all’articolo in questione, Cremerius dimostra anche l’assurdità di identificare la tecnica (o atteggiamento) classico con una tecnica freudiana propriamente detta.
Il fondatore della psicoanalisi, al di là dei suoi scritti sulla tecnica (per altro risalenti agli anni ’11-’14 dello scorso secolo), si può definire a buon titolo il primo grande dissidente all’interno della psicoanalisi! Oltre alle facili battute ad effetto (“Freud non era freudiano”) è interessante vedere attraverso il resoconto dei suoi casi clinici più noti e la testimonianza dei suoi pazienti e biografi, quanto Freud si distaccasse da quella che era, e si strutturerà maggiormente dopo la sua morte, la tecnica psicoanalitica standard.
Sia ben chiaro: il punto nodale non è tanto distaccarsene o meno, ma far riemergere il “sommerso”. Esplicitare ufficialmente il proprio modo di lavorare clinicamente sia per poterlo fare conoscere sia per farlo confluire in un dibattito più ampio, quindi socializzarlo.
Le posizioni dissenzienti di Cremerius, che purtroppo spesso diventeranno bollate come “dissidenti” dalla DPV e dall’IPA, sono ad ampio raggio nel suo pensiero.
Una delle più citate è la critica dell’istituto dell’analisi didattica, per le sue implicazioni che inquinano il setting attraverso una confusione di ruoli tra analista didatta e valutatore del training e che, paradossalmente, mettono in discussione proprio alcuni capisaldi della tecnica standard basati sulla neutralità e l’anonimato del terapeuta. A proposito di ciò, Cremerius ha più volte messo in rilievo la contraddizione nucleare insita in un’analisi didattica svolta allo scopo di  essere accettati come psicoanalisti in quello stesso Istituto o Associazione di cui fa parte il nostro analista (che assume così una funzione anche “oggettiva”, cioè legata al ruolo, di assoluto controllo). Analista peraltro che non viene liberamente scelto, così come non si è liberi di scegliere il momento e la frequenza con cui intraprenderla!.
“L’analisi didattica non può risolvere l’identificazione con l’istituzione e la sua struttura di potere, in quanto è essa stessa prodotto dell’istituzione, alla cui stabilizzazione inoltre contribuisce. Attraverso l’analisi didattica passa la tradizione autoritaria e si conserva la dottrina” e successivamente nello stesso articolo (Cremerius, 1989): “Quanto sia insoddisfacente l’esito dell’analisi didattica lo dimostra il fatto che molti colleghi alla fine del loro training si sottopongono ad una seconda analisi”.
L’intreccio tra processo analitico, limiti ad esso imposti dall’Istituzione e variabili valutative (l’analista che è anche giudice dei progressi stessi del candidato) inquina l’analisi soprattutto per quanto concerne il libero dispiegarsi degli aspetti transferali, soprattutto del transfert negativo, spesso non analizzato. E come potrebbe il povero allievo “segare il ramo su cui è seduto?” (sono le parole di Cremerius) quando è proprio questa pseudoanalisi che gli garantirà gli sbocchi professionali, scientifici ed economici da lui stesso ambiti?
Oltre alla critica dell’analisi didattica è lo stesso processo formativo del training psicoanalitico ad essere posto sotto osservazione critica da Cremerius, che ne rileva i rischi di chiusura, autoreferenzialità, mancanza di aggiornamento e misconoscimento di tutti quegli autori e “Scuole” di cui non si condivide il pensiero e le implicazioni tecniche. E, coerentemente, proprio lui si farà propugnatore di un sistema psicoanalitico formativo di tipo “aperto”, dove i partecipanti sono allo stesso tempo colleghi e co-costruttori dell’iter formativo stesso. Un luogo della formazione psicoanalitica dove si studino tutte le scienze umane, il cui valore era sottolineato sovente da Cremerius nelle sue lezioni e supervisioni (come d’altro canto aveva fatto anche Freud).
E, infine, non dimentichiamo il Cremerius storico e sociologo che, per rimanere nell’ambito del pensiero psicoanalitico, prese più volte posizione in merito ad altri due temi a lui particolarmente cari: l’accademismo universitario e i rapporti, tutt’altro che limpidi, tra il movimento psicoanalitico tedesco e il nazismo.

Un pomeriggio a Milano del dicembre 1991


“Lei vuole lavarsi senza bagnarsi”
“Come ha detto Professore?”
“Sì in Germania diciamo così. Non ci si può lavare veramente senza bagnarsi. Magari sarebbe anche comodo, ma non si può. Per lo meno se ci vogliamo lavare davvero. Quindi, tornando al suo caso clinico, Lei non può pensare di lavorare con questo paziente astenendosi dal notare, e poi mostragli, la coazione a ripetere presente nella vostra relazione” e poco dopo “Dobbiamo essere coerenti. Se vogliamo essere psicoanalisti dobbiamo lavorare psicoanaliticamente!”
Possono sembrare affermazioni autoritarie, anche perché estrapolate da un contesto molto ampio (una supervisione) e non riproducibile in questa sede nella sua interezza. In realtà sono parole che ricordo con piacere e simpatia perchè era un modo, per questo grande maestro e collega, di sottolineare sempre la coerenza nel nostro lavoro. Non la coerenza (o supposta tale) dell’ortodossia e del dogmatismo. Non la coerenza che fece dire a Oscar Wilde che: “La coerenza è l’ultimo rifugio delle persone prive di immaginazione”.
No. Quella di Cremerius era una coerenza prima di tutto etica. Era la determinazione e insieme il forte convincimento che la professione di terapeuti non può esimersi da un ruolo critico e indipendente del proprio pensiero, che oltrepassa le questioni tecniche e metapsicologiche della psicoanalisi.
Soprattutto chi ne conosce la biografia o l’ha conosciuto personalmente sa bene come tutto questo si sia declinato in azione, militanza e propositività. Come ha scritto recentemente il Cardinale Gianfranco Ravasi, a proposito dell’impegno sociale, “Non è sufficiente dire di no, bisogna fare di no”.
Per questo motivo ci piace ricordarlo ancora con queste sue parole: “Io penso che possa essere riconosciuto come analista solo chi si sia addentrato nella filosofia freudiana, quindi nelle lotte per la libertà, contro l’antisemitismo e l’oppressione dei deboli, per i diritti dei bambini, per il rispetto delle donne e il riconoscimento del loro valore” (Francesconi, 2002).
Ecco cosa ci ha lasciato Cremerius: la possibilità che esista una psicoanalisi che pone al centro del mondo l’uomo, inteso nella sua totalità e irriducibilità a qualunque tentativo di classificazione rigida e patologicizzante. Un essere umano che va sempre compreso e rispettato, soprattutto, aggiungo, quando si presenta a noi in una veste cui attribuiamo il nome di “paziente”.

 

Bibliografia ragionata degli scritti di Cremerius tradotti in italiano.

(1969), “La teoria psicoanalitica delle difese con specifico riferimento alla clinica”, Psicoterapia e Scienze Umane, 10.
(1971), “Tacere: problema della tecnica analitica”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3.
(1971), “Il silenzio dell’analista”, Psicoterapia e Scienze Umane, 4.
(1975), Nevrosi e genialità (a cura di), Boringhieri Editore.
(1975), Educazione e psicoanalisi (a cura di), Boringhieri Editore.
(1976),“Difficoltà della terapia psicoanalitica in relazione alla stratificazione sociale”, Psicoterapia e Scienze Umane, 1-2.
(1979), “Esistono due tecniche psicoanalitiche?”, Psicoterapia e Scienze Umane, 1, 1981.
 (1981), “Introduzione” in S. Ferenczi, Elogio della Psicoanalisi. Interventi 1908-1920, Boringhieri Editore, 1985.
(1981), Psicosomatica clinica, Borla Editore, 1981.
(1982), Seminari di Psicoterapia, Angeli Editore.
(1982), “L’amore pre-edipico mascherato come amore edipico, ovvero l’equivoco letterario di Feydau”, Rivista Gli Argonauti, 19, 1983.
(1983), “Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione: riflessione sulla relazione di Sàndor Ferenczi tenuta a Wiesbaden nel 1932”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 1984.
(1983), “L’importanza dei dissidenti per la psicoanalisi”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3.
(1985), “La regola psicoanalitica dell’astinenza, dall’uso secondo la regola all’uso operativo”, Psicoterapia e Scienze Umane,  3.
(1985), “Freud al lavoro: uno sguardo al di sopra della sua spalla. La sua tecnica nei resoconti di allievi e pazienti”, in Il mestiere dell’analista, Boringhieri Editore.
(1985), “La costruzione della realtà biografica nel processo analitico”, in Il mestiere dell’analista, Boringhieri Editore.
(1985), Il mestiere dell’analista, Boringhieri Editore.
(1986), “Premessa” in Aldo Carotenuto, La colomba di Kant, Bompiani Editore.
(1986), “Alla ricerca di tracce perdute. Il Movimento Psicoanalitico e la miseria dell’Istituzione psicoanalitica”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 1987.
(1986), “Attraverso che cosa agisce la Psicoterapia”. Rivista Quaderni Associazione Studi Psicoanalitici, 1, 1990.
(1986), “La rinuncia della psicoanalisi al suo compito emancipatorio-illuministico e il ritorno alla teoria del trauma”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3.
(1987), “Sabina Spielrein, una vittima precoce della politica della professione psicoanalitica”, Rivista Materiali per il piacere della psicoanalisi, Tipografia Editrice Pisana, 12, 1990.
(1987), “L’istituzione, tra il 1923 e il 1926, del sistema di selezione come strumento della politica di potere del “movimento psicoanalitico”, Psicoterapia e Scienze Umane, 4, 1990.
(1987), “L’influenza della psicoanalisi nella letteratura di lingua tedesca”, Gli Argonauti, 33.
(1987), “Quando noi, psicoanalisti, organizziamo il training, dobbiamo farlo in modo psicoanalitico!”, Quaderni A.S.P., 5-6.
(1989), “Analisi didattica e potere. La trasformazione di un metodo di insegnamento-apprendimento in strumento di potere della psicoanalisi istituzionalizzata”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3.
(1991), Limiti e possibilità della tecnica psicoanalitica, Boringhieri Editore.
(1994), Psicoanalisi come professione, ovvero “Parti, cuore mio e cerca Freud”, in Kuciukian S. (a cura di), Benedetti e Cremerius: il lungo viaggio, Angeli Editore, 2000.
(1995), Freud e gli scrittori, UTET Editore, 2000.
(1996), “La situazione della psicoterapia/psicoanalisi nella Repubblica federale tedesca, Psicoterapia e Scienze Umane, 1.
(1996), “I limiti dell’autorischiaramento analitico e la gerarchia della formazione istituzionalizzata”, Psicoterapia e Scienze Umane, 3, 1999.
(1999), “Un europeo a New York. In morte dell’analista Kurt Robert Eissler”, Rivista Setting, 8.
(2000), Il futuro della psicoanalisi. Resoconti e problemi di psicoterapia, (a cura di G. Meneguz), Armando Editore, 2000.
(2002), Intervista a Johannes Cremerius (a cura di M. Francesconi), Rivista Costruzioni Psicoanalitiche, 1.

 

Varchi n.8

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