Editoriale
Questo numero segna un passaggio.
Abbiamo deciso di aprire un nuovo varco, di volgere il nostro sguardo in modo più puntuale ai fenomeni sociali, antropologici e politici che investono il nostro tempo.
Abbiamo trattato il tema del “consenso”, offrendo qualche spunto di riflessione, niente di più.
A gennaio era un tema attuale, era un tema dominante nei discorsi, in televisione, nei media, e poi … di colpo spazzato via.
Il numero è pronto, tutti gli articoli sono impaginati, ma la tipografia andrà a rilento.
è tutto chiuso.
Noi siamo arrivati in tempo, ma in poco, pochissimo tempo, il terremoto del Coronavirus detta i suoi tempi, i nostri tempi diventano incerti.
Tutto è cambiato.
Siamo a metà marzo e da settimane ormai si segue l’informazione per capire come regolare le paure, le ansie, le aspettative, per cercare di capire se e quando la quotidianità potrà riassumere una veste di normalità.
Tutti in casa.
Tutti soli? No. Soli no, anzi perlopiù massicciamente in compagnia attraverso i telefoni e i computer.
Contatti continui, costanti con amici, parenti, contatti professionali a distanza.
Sembra si sia scatenato un forte desiderio di contatto, forse allo scopo di farci sentire al riparo dall’ansia del contagio.
I flash mobs ricordano la danza della pioggia, rituali moderni per allontanare il pericolo o per propiziarsi gli dei.
Un desiderio frenetico di contatto per tutti quelli che non hanno validi motivi per uscire da casa.
Gli altri, quelli che questi motivi ce li hanno, sono stati catapultati nella frenesia del fare, del fare di più, sempre di più e più in fretta.
E nel mentre sono sovrastati dall’ombra persecutoria della paura del contatto, perché contatto per loro significa possibile contagio.
Operatori sanitari negli ospedali e nelle comunità terapeutiche o assistenziali, chiamati a rivedere i loro turni, a svolgere ore di straordinario per curare il contagio o per proteggere dal contagio, vivono in uno stato di stress costante.
Lo sappiamo è così e sarà così ancora per un po’ di tempo.
Per ora, per chi come me resta recluso in casa propria, si vive invasi da tabelle di numeri, da storie struggenti, da biscotti, cioccolate e tazze di the.
La consapevolezza di essere utili agli altri in questo modo aiuta, dà un senso a questo modo di vivere che visto con gli occhi di ieri sembra alquanto strano.
Questa volta il consenso non ha bisogno di sondaggi.
C’è un consenso corposo e trasparente, le città vuote lo testimoniano.
Tutti danno il consenso alle regole comportamentali imposte e raccomandate da chi ci governa, sembra chiaro a tutti che non c’è spazio per nessun tipo di dissenso.
Intanto dobbiamo essere grati agli stranieri che ci aiutano, alle ONG che ci vengono in soccorso, ai Medici Senza Frontiere a cui impedivamo di entrare nella nostra patria e che oggi auspichiamo entrino nei nostri ospedali.
La situazione è complessa, di difficile comprensione, ci si affida agli scienziati senza troppo polemiche e chi non lo fa è visto solo come un cretino.
E qualche cretino c’è sempre.
Le istituzioni ci sono, anche loro per fortuna si affidano agli scienziati, ai competenti e agiscono di conseguenza.
I sanitari ci sono, non si lamentano, non imprecano, chiedono solo i dovuti supporti tecnici, chiedono velocità, chiedono rinforzi come i combattenti in guerra di fronte ad un nemico imprendibile.
Paradosso del paradosso quel nemico siamo noi, siamo noi tutti.
Ognuno di noi è un possibile cavallo di Troia, e ogni ospedale può essere come quell’antica città messo a ferro e a fuoco.
Ci chiedono di non ammalarci, di non contagiarci perché hanno paura di non riuscire ad aiutarci.
Chi non li ascolta non è superiore, è solo un cretino.
Si può dire.
Si può dire che se a metà marzo del 2020 vai a passeggio in via del Tritone a Roma, da solo e peggio se in compagnia, sei un cretino.
E se dici che eri lì per fare la spesa lo sei due volte, perché in via del Tritone non ci sono né supermercati né alimentari.
Addio consenso!