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Identità e cultura: intervista a Sergio Manghi - Varchi n. 16

di Gabriella Paganini

Sergio Manghi, laureato in Sociologia all’Università di Trento nel 1971, è attualmente Professore Ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Parma. I suoi principali temi di ricerca sono le trasformazioni in atto della soggettività, i processi di vittimizzazione sociale, la dinamica delle relazioni di cura e, sul piano teorico, gli intrecci transdisciplinari tra scienze sociali e prospettive bio-psico-evoluzionistiche, con particolare attenzione per l’ecologia della mente di Gregory Bateson, per il pensiero complesso di Edgar Morin e per la teoria mimetica di René Girard. All’esterno dell’Università, svolge attività di formazione nell’ambito delle professioni e dei servizi delle relazioni di cura, educative e d’aiuto.

Nell’ottobre 2016, Sergio Manghi ha tenuto a Bonassola, su invito del Ruolo Terapeutico di Genova, un Seminario intitolato: Identità, sesso e cultura. Una prospettiva antropo-sociologica.

La finalità del Seminario consisteva nell’indagare sui processi di costruzione dell’identità in un momento storico e culturale di radicale metamorfosi interrogandosi a livello multidisciplinare. Con quest’intervista Varchi intende offrire ai suoi lettori una sintesi ragionata e rielaborata di quanto discusso in quelle giornate seminariali.

Identità, società, storia

Il concetto di identità ha in sé qualcosa di paradossale, dal momento che tutti la rivendicano, molti cercano al contrario di dimostrarne l’inconsistenza e, in definitiva, forse nessuno sa bene che cosa sia.... Lei come si colloca rispetto a questo problema?

Il concetto è antico ed è stato usato in tanti modi per dire sia una cosa sia il suo opposto. E non è tanto insensato, anche da un punto di vista sociologico e culturale. Infatti la parola identità è stata usata sia in senso positivo, per indicare un fine socialmente, moralmente, politicamente degno di essere perseguito, sia negativo, come l’opposto della libertà, dell’emancipazione, dell’apertura verso il futuro e verso l’altro, perché rimanda a qualcosa che rimane identico e tende a radicarsi, come fosse un dato naturale, in una storia e in un tempo passati. Io trovo molto interessante la posizione di Edgar Morin che, pur avendo contribuito alla critica corrosiva dei presupposti identitari astrattamente universalistici della cultura occidentale, e pur avendo ben chiare le trappole della tentazione identitaria, mai separa oppositivamente i temi dell’universale e del particolare, dell’unità e della differenza, dell’identità e della molteplicità. Ridefinisce la nozione di identità in chiave di unitas multiplex, per usare una sua espressione, in cui tutte le bipolarità, maschile-femminile, le differenze di età e di cultura, l’esperienza interiore del doppio e del molteplice sono congiunte per coglierne, insieme alla reciproca opposizione, l’intima e reciproca dipendenza costitutiva. È il frutto di quella rigorosa modalità di pensiero che Morin ha sviluppato e che è noto come pensiero della complessità...

Da quando questo tema ha cominciato ad appassionare gli studiosi? Non ricordo che negli anni ’70, ai tempi in cui frequentavo l’università, fosse al centro di dibattiti.

Andando a memoria, negli anni ’60 e ’70 le persone tendevano ancora a percepirsi come degli interi in evoluzione, un’evoluzione accelerata e proiettata verso un “sempre meglio”, mentre successivamente iniziano i dibattiti, accompagnati da una sorta di nostalgia per l’identità perduta. E questo significa che effettivamente era perduta, un po’ come accade con l’altro concetto parallelo di comunità. A un certo punto si è sentita nostalgia per la comunità, segno che quello che chiamavamo comunità non c’era più. È quando qualcosa non c’è più che si pone il problema... Non a caso negli ultimi venti o trent’anni la parola identità viene spesso usata, e non solo in senso negativo, in una accezione più collettiva che individuale, come identità etnica, razziale, sessuale; e quest’ultima è intesa come pluralità delle identità sessuali, riferite a esperienze non individuali ma di intere categorie in cui individui smarriti cercano di trovare un ancoraggio forte. Così la parola identità è diventata centrale ed è stata declinata in modo diversi. Non c’è dubbio però che segnala in ogni caso che un vaso si è rotto: per alcuni bisogna cercare di ricomporlo, per altri non è più possibile. Io tendo a pensarla nel secondo modo. Qualcosa è avvenuto di irreversibile, che non è necessariamente negativo, ma rimane altamente drammatico.

Allude alla caduta del muro di Berlino, alla globalizzazione, all’individualismo sfrenato del mondo odierno?

Direi che la caduta del muro e la globalizzazione sono sicuramente un momento in cui dilaga l’individualismo, ma la rottura è precedente. Ciò che è avvenuto in positivo e in negativo lo collocherei tra gli anni ’60 e ’70, soprattutto ’70. Che cosa è avvenuto in quell’epoca? Quel valore a cui tutto l’Occidente, e non solo, aspirava, la libertà, ha cominciato ad acquisire uno statuto diverso da come lo si era immaginato. Il trentennio glorioso del dopoguerra (gli anni ’40-’50-’60), attraverso le istituzioni rassicuranti paterno-materne del Welfare, ha portato in grembo a lungo un forte sentimento di libertà, facendolo crescere; è anche la prima volta che in Italia e nell’Occidente si sviluppa un senso vitale e non solo concettuale di democrazia, ci si sente cioè in sviluppo, anche morale, liberi, democratici, uguali agli altri. Poi questa libertà trova in questo guscio protettivo un ostacolo, e sono gli anni ’70 e il volgere degli ’80: via via la libertà non è più qualcosa che cresce dentro di sé e che si lotta per estendere, ma qualcosa che si tocca con mano, diventa sentimento di potenza propria, interna, libertà incarnata, realizzata nella propria vita. È lì che si comincia a porre il tema dell’autoaffermazione soggettiva e individuale, l’autorealizzazione.

Anche nel senso di quella ricerca estetizzante del godimento individuale, dove libertà è intesa come possibilità di realizzazione infinita dei desideri, che accompagna l’epoca della globalizzazione thatcheriana e reaganiana?

Sì, ma inizia già prima. Tutto il tema della rivoluzione sessuale, del godimento personale, del piacere individuale era già teorizzato negli anni ’50 dal Marcuse di Eros e civiltà, che precede il più famoso Uomo a una dimensione e avrà molta influenza negli anni successivi. Mentre nella tradizione e nella prima modernità la dimensione individuale, quotidiana, del corpo, della relazione, del qui e ora era depressa, considerata secondaria, accidente e non sostanza, dagli anni ’60 viene investita di valore. Ci sono però due filoni distinti, uno di destra e uno di sinistra per capirci, che confluiranno in quello che accadrà negli anni ’80 e ’90. Uno anti- istituzionale, anticapitalistico, libertario che viene dalla tematica dell’immaginazione al potere, dalla valorizzazione del corpo, l’altro neoliberista, abbastanza nuovo, che comincia a veicolare quest’idea dell’autoaffermazione individuale. Negli anni ’90 i due filoni convergono perché trovano entrambi opportunità di potenziamento soggettivo da un lato nella società dello spettacolo e dall’altro nello sviluppo della tecnica e del mercato generalizzato dopo la caduta del muro di Berlino. E questo cambia radicalmente il movimento del mondo, forse lo accelera vertiginosamente, ma non è solo un fatto quantitativo di accelerazione: è proprio una mutazione antropologica. Mentre nella modernità classica fino agli anni ’70 la dimensione corporea e dell’emozione era subordinata al valore e al pensiero, dopo c’è stata un’inversione. È davvero un cambiamento enorme se lo si percepisce come collegato alla rivoluzione tecnologica, in particolare digitale. Sto leggendo un libro sugli ultimi microprocessori che elaborano informazioni a una velocità che sta raggiungendo i due terzi della velocità della luce... mentre i processi di presa di coscienza viaggiano molto più lenti. Che cosa sta invece al passo di questa velocità? la dimensione pulsionale. Se dovessi dirlo nei termini che mi interessano, anche senza prenderli troppo alla lettera, presenti in un libro che ho scritto sull’idea di soggetto in Edgar Morin, che ha al centro una riflessione sul modello triunico del cervello di MacLean, neocorteccia, rettiliano e limbico, qui siamo sul rettiliano; il sistema tecnologico digitale è ormai una rete che chiude e apre il mondo intero, una specie di sistema nervoso artificiale che funziona da supporto, ma che in realtà è supportato da noi e, prima ancora che abbiamo il tempo per pensare che cosa scegliere, il menu entro cui scegliere è già prodotto a una velocità...

Da quello che lei dice emerge un panorama in cui simmetria e orizzontalità nelle relazioni sembrano sostituire un rapporto più verticale con istituzioni rispettate e considerate patrimonio di tutti. È così?

Certamente c’è il primato del simmetrico, un primato che già c’era e si è accelerato. Tutti sono uguali, si sentono uguali nella pulsione, senza riconoscere qualcosa di superiore, un guscio protettivo più grande. C’è un aspetto più macro, diciamo così, che aiuta a capire questa trasformazione: la fine degli Stati, con il loro insieme di istituzioni depositarie di tutte le mediazioni. La mediazione simbolica, il pensiero, non funziona se non c’è una mediazione sociale e istituzionale. Gli Stati che nascono nel ’500-’600 sono grandi entità fortemente rassicuranti; ancora nel secolo scorso all’esterno fanno guerre devastanti, ma all’interno sono rassicuranti. Col crollo del muro di Berlino entriamo in un’era post-nazionale. La verticalità dava certezza, quanto più cade la gerarchia, cioè la capacità di creare omogeneità, aspettative comuni, coesione, tanto più la libertà cerca altro, non torna più indietro, cerca spazi. Libertà però è competizione, è rilancio simmetrico. Non c’è più il padre a dire chi deve parlare per primo... e allora forse sopravvivono quelli che riescono a trovare un nemico. Oggi, crollato l’ordine bipolare, siamo in un disordine mondiale spaventoso, non c’è nessun equivalente dello Stato con una funzione di tenuta come a livello mondiale si era sperato dalle istituzioni sorte dopo la guerra mondiale, da Bretton Woods all’ONU.

È la politica, allora, ad aver abdicato al suo ruolo di mediazione?

La politica nasce, parallelamente al capitalismo, come tentativo di tenuta quasi disperato (il Leviatano per Hobbes era un dio mortale). Diventa grande e lo è ancora fino agli anni ’60-’70 del secolo scorso perché è associata alla dimensione statuale. Oggi che lo Stato non conta più, si ha un bel dire “la politica dovrebbe...”. Per capire il ruolo della politica proviamo a partire dal basso, dall’esperienza di folla, di massa... la politica moderna si è costituita, diceva giustamente Weber, attraverso la distinzione tra potere e potenza. Il termine potenza, che viene da Nietzsche, macht in tedesco, è qualcosa che ha a che fare con la vita; il potere, herschaft, alla lettera signoraggio, è padroneggiamento della potenza, ma è un padroneggiamento di qualcosa di più potente, che costantemente costringe il potere a ridefinirsi; è come se Machiavelli, nel suo pessimismo attivo, dicesse costantemente al principe ‘guarda che tu prima o poi perdi’. Quello che abbiamo fatto noi della generazione del ’68 è di esserci specializzati molto nella critica del potere, per cui il compito principale è la decostruzione del potere per fare spazio alla libertà, dimenticando che di libertà ne abbiamo già moltissima; non abbiamo fatto invece mai, ed è quello che stiamo facendo adesso, la critica della potenza. Questo è cambiamento, credo. Io so che molti miei coetanei con cui discuto mi considerano quasi un traditore...

Questo mi spinge a chiederle una virata autobiografica... come ha vissuto il senso della sua identità all’interno della sinistra?

Ogni volta che dico la parola sinistra mi si presentificano le due generazioni, oltre alla mia, che sento vivere in me: quella di mio padre che è stato partigiano e dirigente comunista, appartenente a una famiglia in cui c’erano altri partigiani, provenienti dalla bassa reggiana, vicini di podere dei Cervi, e poi la generazione precedente, quella di suo padre, mio nonno. Mio padre è nato quando mio nonno era già avanti negli anni, era il quattordicesimo nato; mio nonno è del 1877, io l’ho conosciuto bene, gli ero affezionato. Socialista della prima ora (Marx e Garibaldi erano ancora vivi, per avere un’idea) aveva accompagnato Mussolini, quando era socialista, nei comizi; poi Mussolini è diventato quello che è diventato e mio nonno ha cominciato a prendere le botte e l’olio di ricino... gli aveva anche scritto, senza ottenere naturalmente risposta. Negli anni ’70 io ho fatto politica per più di dieci anni in modo molto attivo mettendo anche a repentaglio le mie relazioni famigliari e la potenziale carriera accademica. Ho militato nel Manifesto di cui ad un certo punto insieme ad un altro ero il leader, cosa che comportava un impegno a tempo pieno; poi c’è stato il PdUP (Partito di Unità proletaria) ... ero molto attivo con tanto di barbone alla Marx. Poi ad un certo punto, lungo gli anni ’80, ho cominciato a percepire la strada che avevo intrapreso come un binario morto. Cominciavo a dirmi, quasi non credendo a me stesso, che quella politica stava facendo esattamente l’opposto di quello che diceva, cioè faceva vincere gli altri. E non è stato un passaggio semplice, sia dal punto di vista umano, perché voleva dire interrompere delle amicizie, non corrispondere ad aspettative, deludere... sono anche arrivati a votarmi nonostante avessi detto chiaramente di non volermi candidare come segretario... non è stato un passaggio semplice. E devo dire che in quel periodo è stato fondamentale l’incontro personale con Edgar Morin. Sul piano concettuale fra gli anni ’70-’80 avevo fatto, schematizzando molto, il passaggio da Marx a Gregory Bateson e avevo fondato con altri il Laboratorio Bateson, ma era un passaggio ancora intellettuale. Quando ho conosciuto Edgar Morin lungo gli anni Ottanta, che era stato comunista e partigiano come mio padre, ho iniziato a fare i conti con quanto di me faceva politica per inerzia, come sviluppo di un’eredità che non so quanto sentissi davvero veramente mia. C’è un libro che per me è stato molto importante in quel periodo, Il gatto con le ali, uscito nel ’90: quando si è trattato di scrivere l’introduzione, dentro di me portavo ancora tutta quella storia... per me la parola comunismo era una parola quasi rituale negli anni ’70 e, anche se meno usata negli ’80, mi sarei aspettato di trovare il modo di adoperarla e invece mi sono accorto che non l’ho fatto in nessuno dei saggi di questo libro. Non ci stava, sarebbe stata sovrapposta e mi sono rassegnato a non usarla più, a tenerla dentro di me; non l’ho buttata via, ma sentivo che non diceva più nulla. Dal punto di vista epistemologico il passaggio cruciale è stato questo: pensare che l’azione politica è un’azione che si concretizza dentro un contesto caotico in cui non si possono prevedere gli effetti delle nostre azioni, mentre eravamo abituati a pensare di fare politica da un luogo dal quale noi vedevamo e gli altri no. La sinistra continua ancora a pensare così. Mi dicono ‘allora non si può far niente? ’ È esattamente l’opposto. Il solo modo per poter fare qualcosa è sapere di non poter controllare. Non è che se non controllo non faccio niente, rinuncio all’idea che controllo, è tutto un altro problema. Qualcosa posso sempre fare, valutandone via via gli effetti che si producono. Invece l’idea della sinistra è che essere da quella parte dà un vantaggio nel modo di vedere le cose, permette di agire facendo meno errori, ma non è assolutamente vero.

Sono quindi due concetti di identità che entrano in contrasto: il suo, più fluido, in divenire, contro quello dei suoi vecchi compagni di strada che hanno dell’identità un’idea più ontologica, che richiede coerenza, fedeltà, chiusura.

Mi si dice traditore e invece io ho l’impressione che il cambiamento che ho cercato di fare sia stato un modo di rimanere coerente. Io continuo a pensare che qualcosa si può fare, non credo più che ci sia un disegno del quale io sono l’incarnazione. Cerco di fare quello che posso. È la differenza tra un’idea lineare dell’azione e un’idea ecologica dell’azione, che sa cioè di essere all’interno di un contesto più ampio. Bateson insiste sempre su questo. E riguarda anche l’identità.

Identità e relazione

Potrebbe chiarire meglio quest’ultimo punto?

Secondo Gregory Bateson, nella costruzione dell’identità, la relazione viene sempre prima. Se cerco una spiegazione di fatti umani, devo partire dal presupposto che tutto accade all’interno di una relazione. È un principio di carattere epistemologico, etico ed anche estetico. Non significa “deve” venire prima, viene di fatto prima: è questo che noi occidentali, moderni, e anche noi progressisti imbottiti di difese intellettualistiche, facciamo grande fatica a capire. Magari lo capiamo intellettualmente, ma poi tendiamo a non tenerne conto né nelle spiegazioni né nelle sfide dell’etica, perché è un concetto che mette in scacco la presunta autonomia dell’io. Non ci sarebbe neanche la sfida etica, né politica, né affettiva se la relazione non venisse prima, se non ci si trovasse già in situazione, nel bene come nel male, già imbarcati, per usare un’espressione di Pascal. Noi siamo già imbarcati, e non per una generale avventura, ma in una danza relazionale; non ci troviamo in un mare generico, ma in un mare fitto di relazioni, di rinvii reciproci ininterrotti. E noi facciamo molta fatica a pensarci così perché tutto sommato continuiamo ad essere più figli di Cartesio che di Pascal. Quando comincio a sentirmi soggetto? Quando mi penso e a quel punto divento autonomo, ma se invece penso che la relazione viene per prima, la mia autonomia diventa relativa, si definisce attraverso il rispecchiamento nell’altro, grazie all’altro, non attraverso un’operazione solipsistica in cui io penso me stesso. Quindi esiste sempre un contesto di relazioni e di significati, dentro il quale io mi interrogo, agisco. Quando nasco, persino quando sono concepito, anche mentalmente prima ancora che biologicamente, sono già dentro una danza relazionale; il termine usato da Bateson è ‘danza di parti interagenti’. È una condizione di tutte le specie viventi, in particolare dei mammiferi, ma non soltanto... Bateson ha studiato anche i polpi che non sono mammiferi... e non c’è nessun organismo vivente individuale che possa sopravvivere senza essere inserito con altri in ambiti più grandi del suo, con gradi di libertà a volte minimi, vicini allo zero, come in certi batteri, ma mai uguali a zero, altrimenti quella non è vita, è meccanica. È Morin che mi ha insegnato tante cose su questo: c’è una dimensione soggettiva che è giocata dentro la relazione e questa è propria del vivente, è la dimensione ecologica del vivente; l’alternativa è la morte, non l’isolamento. In questo senso la relazione è pervasiva; non può essere isolata, determinata, circoscritta e controllata individualmente, perché anche il controllo avviene mentre si sta danzando dentro relazioni. È sempre policentrica: noi abbiamo un’idea di relazione solitamente legata a due individui, ma, per come penso io la relazione, il due è importante ma da solo non reggerebbe. Se devo dire qual è la struttura minima di una relazione, perché stia in piedi, il numero è tre, perché due devono sempre far riferimento ad un terzo, la relazione stessa è terza rispetto ai due, ci si sente sempre visti anche da altri. Il due da solo è la morte: è importante, ma è un lato come minimo di un triangolo. Inoltre la relazione, oltre che policentrica, è ambivalente: siamo portati ad associarla a positività, ma, a seconda di come la danziamo, ci facciamo del bene o del male, non è automaticamente un luogo salvifico. La relazione è inoltre costantemente generativa, è da vedere più come causa che come conseguenza di qualcosa: genera come minimo se stessa, anche quando si dice che non cambia mai, perché il non cambiare mai deve essere generato, non dipende da un esterno. Infine non è mai emotivamente neutra ed è sempre un fatto culturale, cioè simbolicamente ‘significata’ e, cosa fondamentale, essendo altamente indeterminata e incerta, richiede una cura costante. Nel quadro di Matisse La danza, c’è tutto questo: terra, cielo, finito, infinito, vita, corpi che si tengono per mano e in quelle mani c’è la cura... ma c’è anche l’incertezza, l’ambivalenza nel dettaglio delle due mani che non si toccano... forse si stanno cercando, forse si sono appena perdute. L’importanza della cura è un aspetto più complesso di quanto normalmente si pensi: noi siamo portati a pensare che il mondo sociale sia dato e noi siamo lì per organizzarlo, ma il mondo non è dato, in ogni momento può svanire; se c’è è perché abbiamo la capacità di ricostruirlo costantemente, magari anche male, ma non c’è nessun dio, nessuna natura, nulla che garantisca che la società non si trasformi da un giorno all’altro in un inferno in cui ci massacriamo. E questo vale anche per gli scimpanzé, non è specificatamente umano. L’aspetto culturale che caratterizza la dimensione umana della relazione viene dal fatto che noi tutto questo lo filtriamo simbolicamente, per cui per esempio siamo in relazione contemporaneamente e continuamente anche con tutti coloro che non sono presenti fisicamente, presentifichiamo ininterrottamente nelle nostre danze esseri che abbiamo amato o odiato e che non ci sono più, che magari non ci saranno mai e desideriamo che ci siano come gli dei. Anche il pensare è un inter-pensare: io ho costantemente pensieri altrui attraverso i quali mi penso. Se non mi pensassi pensato sarei nulla. Siamo abituati a capire che cosa vuol dire interagire e ci viene meno spontaneo capire che pensare sia un momento di un inter-pensare, ma le idee ci vengono dagli altri, dal fastidio o dalla meraviglia che ci procurano gli altri... più dal fastidio perché in realtà è la fame che aguzza l’ingegno, un fastidio manda più in profondità. E questo implica un nesso con tutta la problematica del capro espiatorio, perché se sono consapevole che il mio pensiero sorge da una trama di relazioni, sono spinto a pensare che non devo escludere nessuno dai miei pensieri, che la vera originalità del pensiero viene dal saper tenere conto anche dei pensieri del mio nemico. I pensatori del sospetto invece hanno sviluppato un tipo di pensiero che è fondato sul capro espiatorio, perché riesce ad essere ordinato a condizione di avere un nemico assoluto da smagare, umiliare... il pensiero critico occidentale è un pensiero del capro espiatorio, organizza anche i pensieri nei termini di una folla di pensieri che costruisce le sue ragioni e il suo ordine alle spese di qualcuno. È René Girard che ha approfondito il tema del sacrificio catartico del capro espiatorio come strumento millenario nato dall’esigenza di contenere il lato terribile e minaccioso delle nostre interazioni.

Identità e capro espiatorio

In che modo Girard collega a questo tema una riflessione sull’identità?

Secondo Girard, lungo tutta la storia umana, un’identità collettiva molto forte, compatta e coesa è stato un requisito evolutivo fondamentale e questa compattezza non può essere spontanea, non può venire per natura. Da questo punto di vista trovo eccessiva l’enfasi odierna sulle neuroscienze: non è che la coesione sociale e culturale può avvenire come prodotto spontaneo dei neuroni; l’organizzazione neuronale dell’essere umano è apertissima, con una forte plasticità psichica, non è sufficiente per permettere all’essere umano di compattarsi in un gruppo stabile. Secondo Girard questa grande compattezza viene da una dimensione rituale che all’inizio nasce in modo semicasuale e poi tende a stabilizzarsi: è la concentrazione di tutti verso uno, il capro espiatorio; è il tutti contro uno che crea il tutti come noi. Senza l’espulsione del male dal gruppo il gruppo va in crisi. Accade anche nella dimensione individuale quando cerchiamo colpe verso l’esterno per non fare i conti con i nostri conflitti interni, mentre la vera libertà è quella che sa che il conflitto interno è importante per crescere, ed è comunque ineliminabile.

Da dove nascono secondo Girard il conflitto, la violenza?

Dal desiderio mimetico. Per Girard, come in parte per Lacan, il desiderio umano è desiderio mimetico: desiderio e spinta imitativa sono esattamente la stessa cosa da sempre, perché il desiderio, che non ha come il bisogno una direzione ben definita, prende a prestito il desiderio altrui per potersi dare una forma. Siccome questo disegna una circolarità potenzialmente infinita, folle e visionaria dove ognuno imita l’altro e viceversa, è fatale che ci si scontri, perché la convergenza dei desideri è la base della violenza. Non ci facciamo del male sulla base di differenze, dice Girard, bensì sulla base della convergenza verso gli stessi desideri. E poiché il desiderio mimetico non è di per sé né buono né cattivo, esso semplicemente crea i contorni in cui l’uomo, batesonianamente, è in relazione con l’altro. E allora definire l’identità è altamente problematico. E secondo Girard è proprio per rendere tollerabile e generativo il desiderio mimetico che deve intervenire una potenza terza e il capro espiatorio ha proprio questa funzione. Le prime comunità si sono compattate fortemente intorno a questo evento emotivamente molto pregnante, totalmente inconsapevole. La consapevolezza emerge molto tempo dopo. Nella storia occidentale ci sono due momenti in particolare in cui emerge questa coscienza. Il primo è nella tragedia greca: Antigone percepisce oscuramente, ma anche acutamente e dolorosamente che c’è una legge, un ordine che si alimenta col sangue assurdo dei fratelli, che a nutrire l’ordine è la violenza legalizzata e ritualizzata. Lei percepisce questa assurdità... e d’altronde la parola tragedia viene dalla parola tragos, che è il capro del sacrificio. C’è una specie di confessione non ancora cosciente nei Greci, come percepisce poi Nietzsche, che l’ordine si fonda su una dimensione tragica, sul sangue, sul sacrificio. E quest’ordine dà un’identità collettiva forte e un’identità individuale molto definita, modellata dal destino, a condizione di non sapere... perché si tende a presumere che tutto quello che tiene insieme sia qualcosa di sovrumano. Non c’è l’idea che il gesto di sacrificio è violenza e che la violenza nasce dalla comunità. Infatti è un atto dovuto e non si prova empatia per la vittima, perché è colpevole a priori e quel transfert collettivo fortissimo crea un senso del noi come purificazione. Il secondo momento in cui emerge in modo esplicito la dimensione pretestuosa del sacrificio della vittima è nei Vangeli, che non a caso cambiano la storia successiva. Nel Vangelo di Giovanni lo si dice espressamente in due passaggi cruciali. Il primo è quello in cui il gran sacerdote deve convincere il Sinedrio che bisogna eliminare questo essere pericoloso, e, non riuscendo a provarne la colpevolezza, dice la verità: “Non vedete come è meglio che perisca un solo uomo, piuttosto che una nazione intera?” E una volta che il meccanismo diventa visibile si rompe l’unanimità inconscia e diventa molto difficile ricostituire l’innocenza originaria. L’altro passaggio illuminante è quando Gesù dalla croce dice ‘Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno’. Girard nel suo libro Il capro espiatorio dice che lì ha inizio l’inconscio. Noi siamo talmente imbevuti di un’idea moralistica di Gesù, che fatichiamo a capire che è alla ricerca della verità, non della bontà. ‘Non sanno quello che fanno’ è un’affermazione di un acume straordinario che significa: fanno qualcosa di molto preciso, che è quello che gli esseri umani hanno fatto fin dalle origini, coalizzarsi contro uno per non doversi guardare in faccia e affrontare i loro conflitti. Gesù dice che i conflitti ci sono e dobbiamo guardarli in faccia.

E dopo questo disvelamento come evolve il meccanismo?

Quando la pretestuosità, l’infondatezza del capro espiatorio come modo per riconciliarsi è svelata, quello che accade è paradossale. O si corre il rischio che l’ordine sociale fondato su quello non funzioni più o si riesce ad inventare qualcos’altro e quella cosa che chiamiamo democrazia nasce credo da questo disagio. Tutto il tema dei diritti si riferisce ai diritti delle vittime. Ad Atene l’agorà era quella dei maschi adulti, liberi e ateniesi: tutti gli altri erano potenziali vittime. Ad Atene c’era anche l’istituzione del pharmakos, il barbone che veniva curato dalla comunità e, quando c’era una qualche crisi, veniva dato in pasto alla folla e tornava l’ordine. Una caratteristica importante del capro espiatorio è che non deve essere tanto potente da potersi vendicare, ma neanche una nullità qualsiasi. Infatti i barboni venivano allevati dai vicini, è necessaria un’identificazione, in modo tale che ciò che gli si cede vada via davvero.

Noi infatti siamo aggressivi con gli stranieri che si fermano presso di noi; se passano e vanno come i turisti non ci disturbano minimamente...

È sempre così. Che cosa accade allora al sacrificio? Si passa dal sacrificio “utile” al sacrificio inutile. Il sacrificio riusciva a fermare la crisi perché c’era l’inconscio che agiva e non si sapeva qual era l’origine della violenza; nel momento in cui non c’è più l’unanimità non si crede neanche più nell’efficacia del sacrificio come meccanismo sociale, collettivo di rassicurazione, ma siccome rimane nel fondo come una specie di riflesso condizionato si continua, si fanno molti più capri espiatori. C’è un libro di un mio amico sul genocidio in Ruanda dove sostiene che lì siamo in presenza di sacrifici inutili. Siccome non si riesce a ricostituire l’ordine, paradossalmente ci si accanisce nel perseguire questo obiettivo, si insiste e si precipita nella tragedia.

Identità tra natura e cultura

Sulla base di quanto detto finora, l’identità sembrerebbe un fatto più culturale che naturale.

Quello del rapporto natura-cultura è un problema enorme. Se si pensa all’insistenza che c’è stata in questi anni sulle neuroscienze... vi leggo un residuo di speranza che l’identità ci venga dalla natura o almeno che siano le scienze a dirci quanto siamo natura e quanto cultura. È una tematica tutta interna al mondo occidentale che ormai sta diventando il mondo globale. Noi siamo convinti, come dice il sociologo Bruno Latour, che ci siano tante culture e una natura; siamo relativisti in antropologia e assolutisti nelle scienze naturali e assegniamo agli scienziati naturali un potere simbolico pazzesco. Riprendendo un mito delle nostre origini, quello della caverna di Platone, dentro la caverna ci sarebbe la cultura, con gli uomini incatenati a guardare il fondo che oggi sarebbe un monitor, e fuori la natura selvaggia; e poi c’è lo scienziato che fa la spola e va a raccontare a questi com’è davvero la natura: che potere eh? Noi abbiamo inventato il concetto di natura, quello che diciamo natura è una produzione culturale, interamente nostra, su cui abbiamo edificato assolutismi ed elucubrazioni accademiche delle quali facciamo molta fatica a liberarci; e questo perché questi saperi che abbiamo costruito, separati dai saperi sociali, umani, dal ’600 in poi sono diventati sempre più tecnoscienza, e quindi potere. Abbiamo inventato noi questa contrapposizione natura-cultura e questo dualismo ci costringe a chiederci sempre: è natura o è cultura? Tornare indietro non si può, il danno è enorme, ma bisognerà chiederci come agire in un mondo così danneggiato, per riuscire a creare dei significati, un senso che non colluda con questa follia... è un problema tutto interno alla tribù occidentale e se non ci se ne accorge è perché noi abbiamo inventato la scienza come neutrale. La scienza è cultura, non è un pezzo estraneo, lo scienziato non è quello che rientra nella caverna e spiega come è davvero fatta la natura, è un pezzo di cultura. E l’istituzione Scienze Naturali è proprio votata a presiedere questa follia. Ci si domanda: quanto è innato e quanto è appreso? Io rispondo con Edgar Morin: 100% innato e 100% appreso. Il problema non è quantitativo. Il linguaggio di Bateson e anche quello di Morin è un linguaggio che prescinde da questa contrapposizione, non ci sono neanche le due componenti, c’è qualcosa che viene prima, che è la relazione. Noi siamo innanzitutto danze relazionali che riprendono costantemente forma e nel far questo si avvalgono di elementi di carattere genetico, culturale.

Quello che lei dice vale anche per il tema dell’identità sessuale?

L’identità sessuale, è evidente senza bisogno di fare grandi ricerche biologiche, ha un dato biologico innegabile legato alla presenza dei genitali. Quello è un segno che non ha dentro nessun significato predestinato negli esseri umani, per cui, a seconda di quello che nei mimetismi e nella storia relazionale si andrà sviluppando, potrà prendere una strada o un’altra.

È la non coincidenza di sesso e genere su cui si è distinta la riflessione del pensiero femminista, a cominciare da Simone de Beauvoir...

Da questo punto di vista credo che ci sia una contrapposizione interessante nel dibattito femminista tra gli orientamenti della differenza e della molteplicità. La differenza principale che colgo tra i due sguardi è che l’idea della differenza non cade nella mitologia dell’identità, in quanto la differenza è pensata come movimento, scontro, conflitto e quindi è dinamica, rinvia alla relazione, al fare i conti con l’altro; è l’idea della psicoanalista francese Marie Balmary che trovo molto convincente e anche in Bateson la differenza è sempre dentro la relazione. In chi sostiene l’idea di molteplicità invece c’è il rischio di accontentarsi di legittimare tante identità, tant’è vero che si inseguono poi le categorie, i numeri (i generi sono due, tre ecc) e si tende a produrre classificazioni.

Però la Butler, che è esponente della teoria della molteplicità, critica il concetto di genere proprio per la sua eccessiva generalizzazione: nel genere femminile secondo lei era adombrata essenzialmente la femmina bianca, anglosassone e appartenente alla media borghesia...

Non credo che la Balmary cada in questa ingenuità, ma c’è stata in effetti tutta una parte del pensiero della differenza che tende ad una sostanzializzazione, come se nell’essere del femminile ci fosse un’ontologia predefinita così come c’è nel maschile. Mentre la differenza è relazione, dove ogni parte della differenza resiste all’altra, ma, come dice Morin, è contemporaneamente cooperativa e antagonistica, dipende dall’altra e, pur essendo in conflitto, non esisterebbe senza l’altra, rispetto alla quale specularmente si definisce.

Forse la prospettiva della differenza è meno a rischio di angoscia rispetto a quella della molteplicità, la cui idea di potersi dare tutte le curvature possibili, ognuna delle quali ha una sua identità, senza il contenitore di un orizzonte riconoscibile, può creare un certa vertigine...

Secondo me il grosso rischio è quello. Per esempio tutto il filone, che per un po’ di tempo è stato anche di moda, indicato dal termine francese polyamour, che consisteva nella sperimentazione di tante forme amorose da parte di ciascuno, rappresenta un’idea, chiamiamola così, euforica della molteplicità, perché credo veda solo la metà del problema, l’apertura; l’altra metà, che è l’angoscia della molteplicità, si finisce per caricarla sul sistema che non riconosce la molteplicità, di nuovo prendendo a prestito un capro espiatorio per potersi autodefinire. Nella fissazione cattolica contro la teoria gender è evidente che si prende a prestito un bersaglio fantoccio, però bisogna stare attenti che non ci sia un rischio analogo di incorrere in stereotipi anti antigender. Si pensa sempre che l’ostacolo vitale venga da fuori, e l’ostacolo interno? E la domanda ‘che cosa desidero io’? La cosa più elementare che insegna Girard, secondo me, è che gli esseri umani non sanno mai bene che cosa desiderano. Allora dichiarare ‘io sono lesbica’ è come dire ‘io sono interista’, ma tu lo sai che cosa sei? Io so che cosa sono? Credevo di saperlo tanti anni fa. Se c’è una cosa che mi ha fatto anche soffrire è che mi sono accorto di non sapere che cosa volevo, che cosa desideravo. Mi sono accorto che l’importante è esprimere il proprio desiderio, viverlo, ma senza contemporaneamente dimenticare che c’è un fondo del fondo molto inconscio che non sappiamo mai davvero. La moltiplicazione delle identità di genere corre un po’ questo rischio, di evitare il conflitto interno ed esterno. C’è uno spostamento di attenzione sul lato della risposta andando veloci sul lato della domanda. Io sono x, ma questa è la risposta a quale domanda? Alla domanda ‘chi sono’? Per rispondere dovrei dire: al momento, se la memoria non mi inganna..., se ho capito bene... Heinz von Foerster, geniale, diceva che a rigore Cartesio avrebbe dovuto dire: se non sbaglio, penso, anzi, un attimo fa pensavo perché appena dici penso, il pensiero è già passato... quindi, se la memoria non mi inganna, un attimo fa pensavo... è il dubbio ancora più radicale. Morin dice proprio questo, che la differenza tra il suo dubbio e quello cartesiano è che lui dubita anche del suo dubbio e Cartesio no. Questa euforia della molteplicità oltretutto è molto legata credo ad un’idea di libertà che nel nostro mondo è largamente egemone e che è un’idea narciso-liberista, dove la parola libertà è slegata dalla parola relazione, è riferita alla scelta individuale e questo è terribile... perché già è difficile sapere chi si è e, sperimentandosi in tutte le direzioni, si rischia di non trovarsi più. È questo che intendevo dire con ‘stare sulla domanda’, perché se tu sai che la domanda viene da un’angoscia rischi di perderti meno, ma se invece alla domanda trovi subito la risposta nell’ego, nella pulsione, l’angoscia si moltiplica e quella che sembra essere una formazione identitaria è in realtà una disidentificazione.

Identità e crisi: possibili vie di uscita

Il tema dell’identità sessuale sembra riflettere, concentrandoli in sé, molti aspetti della più generale crisi di identità del nostro tempo. Come affrontarla?

Io credo che due siano i piani su cui possiamo agire rispetto a questa crisi: un piano è la politica e l’altro è la cura, ma anche la politica è un aspetto della cura. Curare senza la politica è come vuotare il mare con un cucchiaino, perché una buona politica cura un sacco di persone in un colpo solo. Il fatto che il sistema sanitario assorba l’80% delle spese regionali rivela che, invece di porsi un problema di senso, si cerca di far durare di più la vita, di far funzionare meglio gli organi. È chiaro che c’è in corso una rimozione dell’angoscia di morte, una promessa di vita eterna in terra, una sfida destinata a far saltare la politica che non potrà mai essere alla sua altezza... per cui il piano della formazione alla cura secondo me è strategico, insieme alla politica. È un piano quasi terapeutico nel senso originario della parola, che consiste nell’aiutare e aiutarsi al tempo, a tollerare l’angoscia da libertà e trasformarla possibilmente minimamente in senso della prospettiva. Credo infatti che la malattia fondamentale del nostro tempo sia proprio l’angoscia da libertà smisurata che arriva al delirio e quindi dà un senso di impotenza altrettanto smisurata. E oggi più che mai è indispensabile che la formazione del terapeuta comprenda anche un sapere sociale e antropologico. Sentire l’angoscia di una persona oggi deve essere sempre più legato al sentire l’angoscia del tempo, l’angoscia che viene dalla fine del capro espiatorio e che quindi spinge a trovarne mille cercando sempre fuori le cause; il vittimismo oggi imperante non è che l’altra faccia del delirio di onnipotenza. Ci si mette nella condizione della vittima, ma si è in definitiva vittime di se stessi, perché il capro espiatorio più segreto è sempre dentro, il più nascosto. Se non si riesce a vedere quello non se ne viene neanche fuori.

Mi viene in mente la storia di John Perceval che lei ha raccontato al seminario di Bonassola, una bella storia... dentro c’è tutto.

Eh, sì, è Bateson che analizza questo caso di schizofrenia riscontrando in lui la capacità folle di tenere dentro una complessità infinita. Siamo nel 1830 e John Perceval è figlio del primo ministro inglese ucciso a pistolettate da un pazzo davanti alla Camera dei Comuni; dopo qualche anno presenta sintomi psicotici, ha visioni religiose... viene ricoverato in due cliniche e piano piano il delirio regredisce: esce, scrive due libri di memorie, si sposa, ha figli e fonda l’associazione degli Amici dei lunatici, impegnandosi anche nella difesa dei più deboli. Cento anni dopo Bateson trova su una bancarella i libri di memorie e analizza quanto vi emerge: Perceval racconta che era perfettamente consapevole che i familiari e i medici non capivano nulla di quanto gli stava succedendo (per la famiglia era ingrato e cattivo e per gli altri pazzo), ma aveva anche l’acuta percezione di dover confermare l’idea della famiglia e dei medici per non indebolirli e poter contare su di loro, senza che nessuno dei soggetti coinvolti ne fosse consapevole. Perceval, con il suo autosacrificio, si faceva garante e custode di un ordine sociale in crisi: di un complesso sistema sociale che includeva la famiglia e l’influente istituzione sociale della medicina. L’uscita dalla “trappola da sacrificio” nella quale Perceval era impigliato era passata attraverso un’interpretazione rigorosa e consapevole di quel ruolo di vittima sacrificale. Poiché non tollerava l’incertezza, preferiva essere sicuro di essere colpevole pur di mantenere la centralità, ricavandone un senso di onnipotenza. Lo schizofrenico Perceval esibisce così una “saggezza sistemica”, per dirla con un termine del Bateson successivo, preziosa non soltanto per quanti si occupano di schizofrenia in senso stretto, ma per noi tutti. Una sapienza che può aiutarci a comprendere meglio i modi in cui noi esseri umani diamo ordine, attraverso processi sottilmente inconsapevoli, alle nostre interazioni, alle nostre emozioni, alle nostre coesistenze, compresa la relazione con il mondo delle istituzioni in cui operiamo. Nella storia di Perceval c’è tutta la dimensione micro e macro, dei medici, delle istituzioni, della società... C’è una responsabilità strutturale di cui anche oggi lo psicoterapeuta deve diventare consapevole. Non può pensare ad esempio che il problema di come organizzare l’Asl non sia un problema di competenza terapeutica e che tutta la dimensione sociale e istituzionale non intervenga nel qui e ora della relazione col paziente. Il qui e ora della relazione è strapieno delle voci di tutto il mondo e a maggior ragione di quelle più vicine. Non è solo il problema di chi ti ha inviato la persona, di tutte le sue relazioni di cura precedenti, ma c’è tutta una problematica epistemologica incarnata nelle istituzioni che al tempo di Basaglia era scontata e oggi, incredibilmente, non lo è più: alla dimensione istituzionale è subentrata quella prettamente organizzativa, dove tutto è informatizzato, tutto organizzato e tutto frammentato. La frammentazione è una caratteristica strutturante di questo mondo ed è difficilissimo far sì che qualcosa che accade in un pezzettino risuoni in un altro pezzettino. Infatti far rete ormai è una attività che si realizza solo informaticamente, come sostituto, ma non è solo un sostituto, è una barbarie perché in realtà traduce le informazioni in termini digitali. E il digitale è 01, è differenza senza relazione, in cui la razionalità distingue 0-1, io-tu, io-altro, figura-sfondo; l’analogico invece è relazione quasi senza differenza in un certo senso, potremmo dire è stimolato dalla differenza, è basato sulle ragioni del cuore che la ragione non conosce di pascaliana memoria. L’essere umano è l’unico a possedere i due codici che sono incompatibili e però contemporaneamente indispensabili l’uno all’altro. Bateson insiste molto sull’esistenza di questo doppio codice.

Un altro concetto interessante emerso dalla sue conferenze a Bonassola è quello della doppia tenuta. Si può affiancare alla politica e alla cura come via d’uscita dalla liquidità odierna?

Noi abbiamo creduto, soprattutto a partire dalla nostra generazione, che si possa fare a meno dei genitori ed essere figli di se stessi, figli delle proprie scelte; abbiamo generato un mondo di figli unici, ciascuno orientato al proprio godimento, e abbiamo abbattuto gerarchie certe, a un tempo istituzionali, logiche e simboliche, che hanno caratterizzato la nostra lunga storia fino a tempi recentissimi, custodi indiscusse della lingua, della morale e del senso comune, e per questo rassicuranti. Salvo scoprire che la gerarchia non si lascia beffare e, scacciata dalla porta, può rientrare dalla finestra in forme occulte, magari perverse e distruttrici come quelle tecno-economico-finanziarie, oppure, per via reattiva, quelle etnocentriche o fanatico-religiose. Allora oggi la scommessa si gioca sul piano della politica e sul piano della cura e siccome quella paternità forte non c’è più, la doppia tenuta credo che sia un tipo di formazione indispensabile perché bisogna sapere che ovunque ci si trovi in una posizione di responsabilità relazionale, è necessario sapere reggere in una condizione di elevata incertezza; si deve però reggere due volte, per sé e per l’altro. Se lo si fa solo per l’altro e ci si dimentica di reggere per sé si sfocia nel ‘io ti salvo, io ti guarisco’, il delirio di onnipotenza di chi pensa di potersi sostituire al padre che è morto, senza capire che il padre è morto davvero e non c’è sostituzione possibile. Noi possiamo solo essere dei padri e della madri difettosi, e, cosa ancora più difficile, tenere in verticalità, anche con chi sta sopra di noi.

Che spesso è a sua volta fragile, per cui la difficoltà sta nel tenere anche per lui ma senza screditarlo...

Certo, i dirigenti sono fragilissimi. E allora è fondamentale la formazione: bisogna imparare a prendersi cura di loro. È quello che faceva Perceval. Questa è una condizione completamente nuova, in cui le identità si formano, si scontrano, annegano. Le scuole di psicoterapia, le università e le facoltà di medicina e le scuole di partito, in un tempo di grande incertezza come questo, hanno situazioni molto simili. C’è un problema di nuova formazione. Non abbiamo più alle spalle grandi scuole, grandi istituzioni che reggono e dobbiamo andare avanti sapendo reggere al fronte, giorno per giorno, con una gerarchia sopra fragile e con una domanda fragile. La tenuta è responsabilità, niente altro che quello, saper rispondere a una domanda, essere respons-abile. La domanda viene da questa fragilità del mondo che è terribile.

Una parola conclusiva sul destino dei nostri io?

Il sociologo Mauro Magatti, facendo la storia del mondo in tre mosse, dice che si è passati da un mondo a trascendenza trascendente a un mondo a trascendenza immanente a un mondo ad immanenza immanente dove ogni trascendenza è sparita. Dio è morto davvero, dobbiamo diventare noi piccoli dei se vogliamo stare in questo annuncio tragico. C’è una storia, una storia di saggezza ebraica, che ho raccontato tante volte negli anni e che non mi stanco di ripetere perché sembra nata per raffigurare il nostro tempo. È la storia dei due litiganti e del Rabbi al quale essi si rivolgono per risolvere la loro diatriba. Il primo litigante espone le sue ragioni, il Rabbi ascolta con la dovuta attenzione e sentenzia: Hai ragione tu. Poi tocca al secondo. Il Rabbi lo ascolta con la stessa attenzione e di nuovo sentenzia: Hai ragione tu. Poi tace. Passa il tempo, e si capisce che per lui la vicenda è conclusa. I due litiganti sono sconcertati, ma non osano parlare. E così anche il gruppetto degli allievi del Rabbi, presenti alla scena. Finché uno di questi, fattosi coraggio, chiede di parlare. Il Rabbi gliene dà facoltà, e lui: Maestro, dice, ma hai dato ragione a tutti e due! Il Rabbi lo ascolta, con la stessa attenzione dedicata ai due litiganti, e una volta ancora sentenzia: In effetti, hai ragione anche tu. Questa, prefigurata parecchi secoli or sono, è la condizione nella quale ci troviamo oggi, nell’alba travagliata della società-mondo, in masse sempre più vaste di donne e di uomini, per tutto il globo. Ciascuno e ciascuna, sempre più, con le sue proprie ragioni, irriducibili a quelle altrui, e senza poter più contare su di un dispositivo gerarchico solido e stabile nel tempo che le possa comporre in un ordine condiviso. L’uscita di emergenza? guardarsi in faccia, ascoltarsi, dialogare, creando le condizioni per potersi riconoscere reciprocamente nelle rispettive ragioni. Fare attenzione a non usare i pensieri nello stesso modo in cui le società arcaiche usavano i capri espiatori, cioè solo per darsi ragione. Non è essenziale darsi ragione; il dovere è di esporre un’idea, argomentarla e difenderla senza cadere nel relativismo per cui hanno ragione tutti come nella storia ebraica. Se cadi nel relativismo e dici che tutti hanno ragione eviti il conflitto con l’alibi che sei buono e rispetti le idee di tutti, ma non è vero che le rispetti perché vuol dire che non te ne importa niente, non sviluppi curiosità vera. La curiosità vera la sviluppi o quando ti innamori o quando l’altro ti dà fastidio. Quel relativismo non funziona, i litiganti devono trovare un altro modo che non è più quello autoritario, ma guardarsi in faccia con un’altra terzietà, democratica... ciascuno dei litiganti deve incorporare una parte del conflitto invece che espellerla ed è incorporare una parte del conflitto che genera nuove idee. Il qui e ora dell’incontro tra differenti, l’uno altro per l’altro, per l’altra, differenti per storie, generi, generazioni, e così via, è sempre più il crocevia ineludibile nel quale si va facendo, disfacendo, e ancora rifacendo, la nostra condizione esistenziale e sociale. Il dialogo generalizzato, tra tutti e tutte noi, non è più ormai una opzione morale tra altre: è il nome di quanto già sta accadendo, nel bene come nel male, nella quotidianità fittamente interattiva, insieme interpersonale e planetaria, del nostro tempo. È un lavorio di incessante traduzione tra “lingue” diverse che già stiamo facendo, di cui dobbiamo riconoscere le valenze potenzialmente generative di alleanze evolutive, di fraternità/sororità nuove, non più fondate sul “sangue e suolo” che ereditiamo dal passato, ma sulla consapevolezza della “comunità di destino terrestre” che già siamo nel nostro presente. Marie Balmary nella prefazione a Il monaco e la psicoanalista, un breve racconto in parte autobiografico sull’incontro tra un monaco benedettino e una psicoanalista ebrea e atea, dichiara di esseri ispirata ad un fatto reale, il suo incontro con un benedettino, fratello di Lacan: lui le offre un tè, bevono insieme, parlano, lei va via e si accorge che il monaco non ha bevuto il tè. Capisce che il religioso è in un momento di digiuno, ma lo ha servito per due per non farsene accorgere e non farlo pesare. Per fare posto all’altro.

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